di Sergio Rizzo In fondo a quel mare di latte che per trent’anni traboccava anche dai nostri confini non c’era traccia del dolce nettare che il dio Visnu salvò nel suo bianco oceano dall’ingordigia del demone Rahu. Bensì un fiele amarissimo: 4 miliardi, 208 milioni, 433 mila e 627 euro a carico dei contribuenti.
Un conto spaventoso, che rischia di diventare ancora più salato dopo il deferimento dell’Italia alla Corte di giustizia Ue, con la motivazione che nonostante le ripetute tirate d’orecchie della Commissione non avrebbe fatto ciò che doveva. Ovvero, recuperare dagli allevatori che negli anni avevano sforato i limiti di produzione di latte imposti dagli accordi comunitari le multe di cui si era fatto carico lo Stato .
Tutto cominciò nel 1984, quando Bruxelles decise di introdurre limiti produttivi ai vari Paesi: motivando la cosa con la necessità di non far crollare i prezzi. Qui governava Bettino Craxi e il ministro era Filippo Maria Pandolfi. Nella politica agricola gli interessi nordeuropei prevalevano sempre, e fu così anche in quella occasione sotto il vigile sguardo del commissario all’Agricoltura, il danese Paul Dalsager. La dimostrazione? Fino al 2009 l’Italia non poteva produrre più di 105 milioni di quintali, contro i 112 concessi all’Olanda, che ha circa un quarto degli abitanti.
I nostri allevatori, che avrebbero dovuto pagare multe consistenti se non avessero rispettato quei limiti, continuarono come se nulla fosse. E dieci anni dopo l’Italia aveva già pagato, sotto forma di tagli ai contributi agricoli, multe per l’equivalente di un paio di miliardi di euro. Tutti soldi che migliaia di produttori (i titolari di quote latte nel 1995 erano 110.278, quasi tutti nella Pianura Padana) avrebbero dovuto restituire all’Erario. Ma il disordine statistico e contabile era totale. Per di più c’era al governo la Lega Nord di Umberto Bossi, che contava fra gli allevatori una solida base elettorale: il futuro leader dei Cobas del latte era stato appena eletto senatore. E per dire quanto fosse organico il rapporto di Giovanni Robusti, questo il suo nome, con il Carroccio, si ricordi che nel 1998 fondò la Cesia, una società di consulenze agricole di cui la finanziaria del partito Fin Group possedeva il 35 per cento. L’ultimo provvedimento del primo governo Berlusconi, nel dicembre 1994, fu dunque un decreto che accollava le multe pregresse all’Erario. Da allora, però, chi avesse sforato, avrebbe dovuto pagare: senza se e senza ma.
Non è andata così. Con la Lega che soffiava sul fuoco, gli allevatori allagavano le autostrade di latte e letame. Intanto i più furbi, servendosi di cooperative fantasma, trasmigravano da Cuneo a Udine, inseguiti dai magistrati e lasciando dietro di sé milioni da pagare dopo aver sforato allegramente le quote di produzione che allora si compravano e si vendevano. L’andazzo continuò per anni, con i furbetti che si arricchivano e gli allevatori onesti che si impoverivano, senza provocare alcun turbamento politico in casa nostra. Finché i leghisti, che erano già stati al governo dal 2001 al 2006, arrivarono nel 2008 al ministero dell’Agricoltura.
L’ex ministro Luca Zaia, attuale presidente della Regione Veneto, ha recentemente rivendicato di essere l’autore della legge che prevede «il pagamento oneroso delle multe»: parole sue. Mise la firma su un provvedimento che consentì la comoda rateizzazione delle sanzioni per i titolari di quote il cui numero nel frattempo si era ridotto a 43.611. Ma fra i primi suoi atti ci fu anche quello di affidare ai carabinieri un’inchiesta sul settore lattiero. Che diede risultati sorprendenti, a partire da un numero di mucche ben inferiore a quelle ufficialmente censite. «Alla luce di questo mi sembra logico che chi deve pagare si fermi un attimo» dichiarò Zaia. E subito gli obbedirono.
Passò il messaggio che per anni l’Italia aveva addirittura pagato multe non dovute. Alcune procure aprirono le indagini e ci fu chi spiegò i dati della sovrapproduzione con un flusso enorme di importazioni illegali di latte estero spacciato per italiano da parte di certi caseifici. Il clima era fetido. Accadde pure che ai vertici dell’Agenzia incaricata di far pagare le multe fosse collocato un ex senatore leghista. Dario Fruscio si era però messo in testa curiosamente di applicare la legge e fu rimosso.
I risultati del tira e molla sono in una relazione sfornata a ottobre 2014 dalla Corte dei conti, dove c’è scritto che nonostante le bacchettate dell’Europa e dei nostri giudici contabili, «lo stato dei recuperi è fermo perché la riscossione esattoriale non è stata attivata».
Quanto ai numeri, eccoli. A causa dello splafonamento delle quote latte l’Italia ha pagato 4 miliardi e 494 milioni di euro, di cui i 4,2 di cui sopra a carico dei contribuenti considerando le poche somme recuperate dai produttori.
Dei circa due miliardi di multe (esattamente un miliardo 957 milioni) precedenti al 1995 e passate in cavalleria si è già detto. A fine 2014 restavano a carico degli allevatori 2 miliardi 537 milioni. Di questi, 330 sono stati annullati dai giudici finendo integralmente a carico dell’Erario. La somma si è così ridotta a 2 miliardi 207 milioni: 286 milioni sono stati pagati, per 466 è stata chiesta la rateizzazione e 108 sono considerati irrecuperabili per varie ragioni. Siamo così a un miliardo e 347 milioni: ma 532 sono in contenzioso, quindi non esigibili. Appena 815 sono concretamente aggredibili. Ragion per cui per iniziativa del ministero ora guidato da Maurizio Martina sarebbero partite adesso le relative cartelle esattoriali, con la riscossione finalmente attivata.
Vedremo gli esiti. Ma vale la pena di ricordare che è come se ogni italiano, senza distinzione di sesso, età, credo politico o religioso, avesse tirato fuori finora settanta euro di tasca propria. L’unica consolazione è che da 5 anni non si pagano più multe e dal primo aprile 2015 le quote latte verranno abolite. Meglio tardi che mai.
Il Corriere della Sera – 28 febbraio 2015