Il quoziente familiare, che Matteo Salvini ha appena promesso per riallacciare i rapporti coi cattolici. L’ampliamento della «no tax area», cioè della quota dei redditi su cui non si pagano imposte, che Luigi Di Maio vuole per non sbilanciarla troppo in favore dei ricchi. Il problema mai risolto degli «incapienti». La riforma delle imposte si complica e la flat tax si allontana sempre di più dal disegno iniziale, quello di una tassa «piatta», con una sola aliquota, semplice da capire e da pagare.
Il progetto di base della Lega, poi sposato dai 5 Stelle, non prevedeva né la «no tax area» né il quoziente familiare, cioè quel meccanismo che consente di calcolare l’imposta sulla somma dei redditi della famiglia, premiando quelle più numerose. E dovrà essere adattato, per diventare più aderente alle diverse esigenze politiche della nuova coalizione di governo. Con risultati che andranno verificati e altre incognite importanti ancora da sciogliere.
Tra queste c’è in primo luogo la questione (annosa) degli incapienti, cioè dei contribuenti che avendo redditi bassi non pagano tasse e non riescono così a beneficiare delle numerosissime detrazioni fiscali, che dovevano essere razionalizzate e tagliate, ma che alla fine in gran parte resteranno (come il bonus degli 80 euro di Renzi, anche se con un altro nome).
A maggior ragione se si dovesse arrivare ad ampliare la «no tax area», oggi fissata a 7.500 euro per i lavoratori dipendenti, bisognerà trovare il sistema di far godere gli sconti delle detrazioni alla fascia di redditi più bassi, che paradossalmente ne resta esclusa.
Il programma di governo di Lega e Movimento 5 Stelle, al riguardo, non contiene impegni specifici. I tecnici dell’esecutivo al lavoro sulla riforma stanno però studiando diverse possibili soluzioni, compresa quella della trasformazione dello sconto fiscale in un «buono monetario», un voucher. La soluzione del problema degli incapienti renderà la flat tax ancora più costosa, ma per il Movimento 5 Stelle, che ne fa una questione di equità, sembra un passaggio irrinunciabile della riforma.
Anche l’introduzione del quoziente familiare sollecitato da Salvini porta i suoi problemi tecnici. La flat tax originaria prevedeva una deduzione di 3 mila euro per ogni familiare o figlio a carico del contribuente, che andavano ad esaurirsi con l’aumentare del reddito fino ad annullarsi del tutto. Un sistema che se favorisce la famiglie numerose, scoraggia la presenza di più redditi nello stesso nucleo. Il contrario dell’obiettivo cui punta il quoziente familiare classico.
L’ampliamento della quota di redditi esenti dalle imposte non presenta alcuna difficoltà tecnica o applicativa, ma avrebbe in compenso un costo molto elevato. Della «no tax area», infatti, beneficiano tutti i contribuenti. Pure chi ha redditi altissimi su quei primi 7.500 euro non paga imposte. Anche per questo, tra le ipotesi prese in considerazione dai tecnici, ci sarebbe la «no tax area» a geometria variabile. Più alta per i redditi bassi, e sempre meno, fino a scomparire, per quelli più alti. Sarebbe accentuata anche la progressività della flat tax, che è uno dei punti deboli, e più criticati, della riforma.
Il primo modulo della flat tax sui redditi Irpef dovrebbe vedere la luce già nel 2019, anche se l’effetto (e il costo) sarebbe in gran parte spostato sull’anno successivo, quello della dichiarazione dei redditi. Potrebbe valere tra i 3 e i 4 miliardi di euro, ed essere coperto almeno nel primo anno dal gettito della pace fiscale (poi contribuirebbe anche la maggior crescita dell’economia indotta dalla riforma). La nuova sanatoria fiscale arriverebbe in un momento in cui la strategia delle Entrate nei confronti degli evasori sembra dare ottimi risultati. Nei primi sei mesi di quest’anno gli incassi da «compliance», cioè ottenuti con l’adesione volontaria agli inviti «amichevoli» del fisco, sono volati a 700 milioni. Un anno fa erano stati raccolti appena 200 milioni. E per il 2018 si profila un nuovo record degli incassi della lotta all’evasione, a giugno siamo a 6,7 miliardi.
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