Percorso incerto. La sanzione economica non elimina il rischio di contenziosi in caso di disapplicazione dei Ccnl di settore. Il tetto del 20% per l’uso dei contratti a termine non vale per tutti. Il decreto Poletti – all’esame della Camera per l’approvazione definitiva – stabilisce che, in sede di prima applicazione, se i contratti collettivi nazionali fissano un limite massimo diverso, rispetto al totale dei rapporti a tempo indeterminato, è quest’ultimo a conservare efficacia.
In pratica, dunque, il decreto legge impatta su un ampio reticolato di intese contrattuali che ne potrebbero limitare l’applicazione.
Dalla mappatura realizzata da Adapt – Associazione per gli studi internazionali e comparati sul diritto del lavoro e sulle relazioni industriali – sulla contrattazione di portata nazionale, emerge che solo tre contratti collettivi (bancari, agenzie per il lavoro, metalmeccanici) su 18 considerati non prevedono «clausole di contingentamento» dei contratti a termine rispetto a quelli a tempo indeterminato. Negli altri settori, il tetto oscilla tra un minimo del 7% (elettrici) e un massimo del 35% (autotrasporti).
Per le aziende che superano la soglia del 20%, la legge è chiara. Chi oltrepassa il tetto, sarà punito con la sanzione pecuniaria (si vedano gli esempi), pari al 20% della retribuzione complessiva del lavoratore, per il primo superamento nella singola unità produttiva. La multa sale alla metà dello stipendio totale, se il numero dei lavoratori assunti in violazione del limite è superiore a uno. I datori di lavoro hanno la possibilità di mettersi in regola entro fine 2014, a meno che i contratti collettivi non prevedano tetti più favorevoli alle aziende.
Così, ad esempio, agli edili e ai lavoratori del legno si applicherà il limite del 25% e agli autotrasportatori addirittura quello del 35 per cento. Diversa la sorte degli elettrici – oltre 83mila, di cui 2.100 a termine secondo le elaborazioni del centro studi Datagiovani – dove il limite è molto più restrittivo (7%), per i lavoratori del tessile (circa 500mila) con un tetto del 10%, per quelli del cemento (12%), e degli alimentari (14%).
Nella maggior parte dei contratti collettivi le percentuali non sono assolute ma variano in base alla dimensione aziendale e alla “compresenza” di rapporti di lavoro in somministrazione, che in alcuni casi sono conteggiati nel massimale e in altri no.
L’azienda che ritenesse il regime del decreto Poletti più in linea con i propri interessi potrebbe decidere – discrezionalmente – di disapplicare il contratto collettivo. Ma con quali possibili conseguenze? Secondo i ricercatori di Adapt, la violazione della clausola di contingentamento esporebbe al rischio di conversione del contratto a termine in rapporto a tempo indeterminato. «Ciò in ragione del fatto – spiega il giuslavorista Michele Tiraboschi, responsabile scientifico di Adapt – che la contrattazione collettiva individua un nuovo standard che per le aziende rientranti nel relativo campo di applicazione ha forza di legge e quindi assorbe anche il regime sanzionatorio previsto dal legislatore». Fino a oggi, infatti, la linea dettata dalla giurisprudenza (ormai abbastanza consolidata) nei confronti dei datori che sforavano le clausole di contingentamento dei contratti a termine, è stata quella della conversione del rapporto a tempo indeterminato.
Secondo un’altra interpretazione, invece, la sanzione del 20% – che si applicherebbe anche per la violazione dei “tetti” diversi dal 20% stabiliti dai contratti collettivi – esaurirebbe il campo delle sanzioni applicabili al datore non in regola.
Il Dl Poletti, però, non stabilisce in maniera diretta che la sanzione amministrativa esclude altre possibili conseguenze per il datore. Andava in questa direzione, ad esempio, un ordine del giorno presentato dalla Lega al Senato (ma non accolto) per impegnare l’Esecutivo a chiarire che la nuova sanzione è «interamente sostitutiva» anche dell’indennità risarcitoria per il periodo compreso tra la scadenza del termine e l’eventuale pronuncia del giudice che ordina la ricostituzione del rapporto, in caso di contenzioso.
La durata dell’incarico pesa sul calcolo della multa
Importo massimo. Se l’irregolarità riguarda un operaio qualificato assunto per 36 mesi nell’industria la penalità sfiora i 30mila euro
Violare il tetto del 20% per i contratti a termine può costare caro: ipotizzando – ad esempio – un rapporto di lavoro instaurato per la durata massima consentita dalla legge (36 mesi) con un lavoratore qualificato dell’industria metalmeccanica, assunto fuori dal limite introdotto dal Dl 34/2014, la sanzione economica si attesta a oltre 11mila euro. È l’effetto prodotto dal testo licenziato mercoledì scorso dal Senato (su cui il Governo ha ottenuto la seconda fiducia) e che entra oggi in discussione alla Camera per l’approvazione definitiva (il Dl scade il 19 maggio).
Il decreto Poletti ha introdotto un parametro di contingentamento delle assunzioni a tempo determinato, fissato nella misura del 20% dell’organico complessivo: la nuova versione dell’articolato – che modifica la disciplina del Dlgs 368/2001 – lascia invariata la soglia (il cui superamento diventa bloccante, per nuove assunzioni a termine, al 1?gennaio 2015) ma modifica la base di computo, che viene assunta nel numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1? gennaio dell’anno di assunzione. I datori di lavoro che impiegano fino a cinque dipendenti, potranno assumere un solo lavoratore a termine.
L’innovazione più importante riguarda però i profili sanzionatori: se, in caso di sforamento, la versione del Dl 34 licenziata dalla Camera prevedeva la trasformazione del rapporto in un contratto a tempo indeterminato, sin dal momento dell’assunzione, la norma approvata dal Senato determina l’applicazione di una sanzione amministrativa pari al 20% o al 50% della retribuzione (per ciascun mese o frazione di mese superiore a 15 giorni di durata del rapporto di lavoro), a seconda che la violazione riguardi uno o più contratti a tempo determinato.
La sanzione non scatta per gli sforamenti derivanti da assunzioni realizzate prima dell’entrata in vigore del decreto (21 marzo) e la nuova regolamentazione si applica ai soli rapporti stipulati successivamente.
La svolta è notevole se si mette a confronto con la regolamentazione previgente al decreto: prima non esisteva alcun limite legale di contingentamento ma solo tetti eventualmente stabiliti dai Ccnl. Il mancato rispetto di questi ultimi faceva quindi scaturire effetti di carattere meramente privatistico (violazione contrattuale), perché questi limiti rivestivano la natura di clausole «obbligatorie», cioé vincolanti per i datori di lavoro associati alle organizzazioni datoriali stipulanti il Ccnl.
Le diverse previsioni limitatrici dei contratti collettivi continuano a rimanere valide, creando quindi una sorta di “congelamento” del tetto legale del 20% – «in sede di prima applicazione del decreto».
Qualche criticità potrebbe anche derivare per i contratti a termine stipulati dal 21 marzo 2014, fino alla data della conversione in legge: per questi rapporti, infatti, rimangono salvi gli effetti già prodotti dal decreto stesso e quindi non saranno verosimilmente soggetti alla sanzione amministrativa, se stipulati in violazione del limite del 20%, ma a quella della trasformazione a tempo indeterminato.
L’unica deroga al limite del 20% è quella riferita ai contratti a termine per gli enti di ricerca (per lo svolgimento della stessa attività).
Il Sole 24 Ore – 12 maggio 2014