Razzi e granate ai confini con l’Ucraina. Sanzioni e sbarramenti sui mercati. La guerra commerciale tra Russia ed Europa si sovrappone allo scontro militare, complicando il negoziato per una soluzione politica. Il presidente Vladimir Putin, secondo quanto riferito dal suo portavoce Dmitri Peskov, sarebbe pronto a vietare «l’importazione di auto, di farmaci e di apparecchi sanitari» provenienti da Unione Europea, Stati Uniti e forse anche Giappone.
Nei prossimi giorni si capirà se e quanto questa minaccia si tradurrà in provvedimenti concreti. Ma l’annuncio è di per sé sufficiente ad alimentare le preoccupazioni delle industrie occidentali e il nervosismo delle piazze finanziarie. Sarebbe la quarta tappa dell’escalation avviata il 17 marzo 2014 dagli Stati Uniti e dal 29 aprile dalla Ue, con la prima ondata di misure restrittive a carico di alcune figure dell’entourage di Putin. Poi il 26 luglio, subito dopo l’abbattimento dell’aereo malese, americani ed europei spostano il conflitto sul piano economico, colpendo le esportazioni di tecnologia nel settore energetico. La risposta di Putin matura il 6 agosto: divieto di importazione di un largo paniere alimentare, dalla carne alla frutta, esteso ai 28 Paesi Ue, alla Norvegia, agli Stati Uniti, al Canada e all’Australia. Ora sembra pronta la quarta fase che rischia di essere la più insidiosa.
La prima conta dei danni
L’allarme delle categorie più colpite dall’embargo agroalimentare è già arrivato fino a Bruxelles. La Commissione europea si è comportata come se fosse di fronte a una calamità naturale, e non davanti alle conseguenze di una decisione politica, stanziando 125 milioni di euro da dividere tra i produttori europei, ma solo di frutta e verdura. I margini del bilancio comunitario sono molto ridotti, forse arriveranno altre risorse ma la Commissione non potrà coprire tutte le perdite. La prospettiva di un rimborso, per quanto limitato, ha però già riacceso la mischia. Il divieto di accesso a carne, pollo, pesce, latte, uova, frutta e verdura dovrebbe cancellare 31,2 miliardi di euro su un totale di 52 miliardi di export agroalimentare. Eurostat, l’ufficio statistico della Commissione, ha compilato una classifica nell’ambito Ue, considerando il valore delle merci vendute alla Russia nel 2013 e ora rifiutate. È una lettura interessante anche dal punto di vista politico.
I Paesi potenzialmente più danneggiati sono la Lituania (927 milioni di euro) e la Polonia (841 milioni): sarà un caso, ma sono i due Stati che più hanno spinto per convincere l’Ucraina a firmare il trattato di associazione con l’Unione Europea, in aperta polemica con la Russia. Al terzo posto c’è la Germania (595 milioni), subito dopo l’Olanda (528 milioni). Poi uno scalino, con cifre quasi dimezzate: Danimarca (377 milioni), Spagna (338 milioni). L’Italia è decima, con 163 milioni a rischio, alle spalle della Francia (244 milioni).
Nei giorni scorsi la Coldiretti ha segnalato il blocco di forniture già concordate e il bollettino degli ordini annullati si gonfia giorno dopo giorno:le pesche lombarde, le pere modenesi, il grana padano, i salumi. Lo scorso anno l’export dell’ortofrutta ha incassato 72 milioni; le carni, 61 milioni; la pasta, 50 milioni. Anche la Cia (Confederazione italiana agricoltori) e gli industriali-trasformatori della Federalimentare, prevedono perdite stimabili tra i 100 e i 200 milioni di euro.
Il rilancio di Putin
L’agroalimentare è una voce che vale l’1,7% delle esportazioni tedesche e l’1,6% di quelle italiane in Russia. Il grosso dei flussi commerciali finora è rimasto al riparo delle rappresaglie. Ma le cose potrebbero cambiare se venissero chiuse le frontiere alle automobili. Il mercato russo assorbe circa 2 milioni e 600 mila vetture (2013). I francesi della Renault, in joint-venture con la russa AutoVaz (marchio Lada), sono i leader con una quota del 25%. Poi vengono i coreani di Hyundai-Kia. Gli americani di General Motors vendono circa 300 mila auto; i tedeschi della Volkswagen 293 mila; il gruppo Fiat-Chrysler 7.400 (al netto delle macchine vendute dallo stabilimento in Serbia).
L’embargo dovrebbe risparmiare le vetture prodotte dalle case straniere nelle fabbriche russe: sarebbe il caso di Ford, Renault, Toyota, Hyundai e Volkswagen. Ma già la società tedesca, ad esempio, assembla circa 700-800 mila esemplari a Kaluga (188 chilometri da Mosrca), ma ne fa arrivare almeno il doppio da linee fuori del territorio russo. In definitiva i russi importano il 27% delle auto immatricolate, il 46% dei camion e il 13% degli autobus. Nei piani di sviluppo delle case europee, da Volkswagen a Fiat, la Russia è ancora una delle destinazioni più interessanti: per vendere e per investire (1,3 miliardi di euro, lo stanziamento già programmato dai tedeschi). È evidente quindi che la seconda ondata di contromisure avrebbe effetti dirompenti. La Russia è un cliente prezioso per quasi tutti. La Gran Bretagna, per esempio, non solo vende macchine per 1,6 miliardi di sterline (quasi 2 miliardi di euro), ma anche farmaci.
Le diplomazie sono già al lavoro per sventare il nuovo pericolo. I governi europei fanno affidamento anche sui segnali di crescente fragilità dell’economia russa. L’embargo alimentare ha sicuramente accelerato la corsa di un’inflazione già troppo alta: 7,5% in luglio. I capitali stranieri continuano a evaporare. La Banca centrale russa ha dovuto registrare la partenza di 44,7 miliardi di dollari (33,5 miliardi di euro) nella prima metà del 2014: una cifra equivalente all’intero stock perso in tutto il 2013. Prezzi alti e capitali in fuga si traducono nell’indebolimento del rublo e nel calo dei consumi. L’ultima cosa di cui avrebbe bisogno la popolazione russa è la chiusura dei mercati e dei commerci con l’Occidente .
Giuseppe Sarcina – Il Corriere della Sera – 20 agosto 2014