Prossima tappa la riforma del lavoro. Subito gli ammortizzatori sociali. Ma poi i cambiamenti allo Statuto dei lavoratori. Gli articoli del Fatto quotidiano e del Corriere. Chiusa la manovra, tocca al mercato del lavoro. Fallite le liberalizzazioni, sperando di evitare il trauma di un altro flop, il governo Monti passa al prossimo punto in agenda. Che sia il lavoro il punto più delicato del mandato dei tecnici lo ha chiarito Pier Luigi Bersani, segretario del Pd: “Sono sicuro che quando si parla di riformare il mercato del lavoro non si parla tanto di articolo 18, ma di chi perde il lavoro in età avanzata. L’articolo 18 non è la questione”.
Non sarà la questione, ma di certo è il tabù: se si tocca quello, il tentativo di Bersani di compattare il Pd su posizioni da sempre minoritarie nel partito, quelle “riformiste”, potrebbe sfociare in un disastro.
Magari con scissioni e forse la fine dell’esperienza Monti. “Il nostro orizzonte è l’appuntamento elettorale”, ha detto Bersani: contano più gli elettori dei tecnici.
I colloqui informali, preliminari, con il governo sono in corso da giorni. Il dossier che ha in mano il ministro del Welfare Elsa Fornero è più complesso ancora del beauty contest sulle frequenze affidato a Corrado Passera. Qualcosa bisogna fare, per due ragioni: la recessione, se sono giuste le stime della Confindustria, nel 2012 sarà molto più grave del previsto: -1, 6 per cento del Pil contro il -0, 5 stimato dal governo Berlusconi. Quindi serve un segnale per la crescita, e una riforma del mercato del lavoro è quello che chiedono i mercati e l’Unione europea.
La seconda ragione l’ha spiegata il ministro Fornero, in audizione alla Camera: finora le imprese cercavano di liberarsi perfino dei 50enni perché troppo costosi, dopo la riforma delle pensioni bisogna convincerle a tenerli fino a 67 anni. Quindi serve un necessario intervento sulla “curva retributiva”, ha detto la Fornero. Tradotto: si studieranno dei contratti per i lavoratori a fine carriera più simili a quelli dei giovani, flessibili e a salario ridotto.
Ma non è questa la parte più traumatica. Fin dai primi giorni, è stato chiaro che il governo voleva seguire la linea di riforma indicata dal senatore del Pd e giuslavorista Pietro Ichino, che finora si è tradotta in disegni di legge arenati in Parlamento.
I costi del modello Ichino. Il “modello Ichino” è questo: tutti i lavoratori vengono assunti a tempo indeterminato, con un periodo di prova di sei mesi in cui non si applica l’articolo 18 che obbliga le imprese a riassumere i lavoratori licenziati senza giusta causa, pagando loro pesanti indennizzi. Dopo il periodo di 6 mesi, scattano le vecchie tutele, con una differenza: l’impresa può licenziare anche per motivi economici e organizzativi, pagando un’indennità che cresce con l’anzianità di servizio. Più tempo hai lavorato, più costoso sarà per l’impresa allontanarti. Niente cambia per gli attuali lavoratori a tempo indeterminato tutelati dall’articolo 18 (che vale solo nelle imprese con più di 15 dipendenti). Monti ha già annunciato una “riforma del mercato del lavoro per favorire l’ingresso nel mondo del lavoro di giovani e donne, le due grandi risorse sprecate del nostro Paese”. Ma, per quanto bene possa fare alla crescita, ci sono dei costi iniziali non indifferenti.
Nel progetto di Ichino i lavoratori licenziati possono contare su un’assicurazione che, in caso di perdita del lavoro, garantisce fino a tre anni di retribuzione, il primo anno al 90 per cento dello stipendio e poi al 70. Questa assicurazione dovrebbe essere a carico delle imprese, ma al ministero stanno facendo due conti: alzare adesso il cuneo fiscale, cioè la differenza tra il costo di un lavoratore all’azienda e il suo salario netto in busta paga, sarebbe un disastro, scoraggerebbe le poche assunzioni previste. Ma introdurre incentivi pubblici per ridurre questo extra costo è poco proponibile, visto che i soldi da spendere sono pochissimi.
Il rischio dello scontro Bersani e il Pd già temono il bis del 1996: la riforma senza gli ammortizzatori, cioè più precarietà ma niente garanzie. E quindi stanno facendo pressione sulla Fornero perché qualunque discorso sul mercato del lavoro parta da una riforma degli ammortizzatori sociali, a cominciare dalla cassa integrazione. Interventi che valgono 7-8 miliardi. Oltre che con i partiti, il governo Monti ha qualche problema al suo interno. Il ministro Fornero è esperta di pensioni, meno di mercato del lavoro. Quello è il campo di Michel Martone, giuslavorista nominato viceministro, ma che ancora non ha ricevuto le deleghe. Che sono una questione delicata, sia per i rapporti di forza dentro l’esecutivo che per la relazione con i sindacati. La Fornero non può appaltare completamente una riforma così delicata al suo vice che è visto soprattutto dalla Cgil come troppo riformista per essere un interlocutore. Martone, per ora, non commenta. Ma chi frequenta i corridoi del ministero del Welfare sostiene che, comunque finisca la spartizione delle deleghe, sia la Fornero sia Martone non hanno alcun interesse ad andare allo scontro frontale con Susanna Camusso e l’ala sinistra del Pd, si procederà con passi molto graduali.
Ma, prima o poi, nelle prossime settimane si dovrà toccare anche il tabù dell’articolo 18, almeno per i nuovi assunti. E non sarà indolore.
Cacciare i lavoratori più facilmente: dieci anni di tentativi
Cambiare lo Statuto dei lavoratori del 1970 è sempre stata l’ossessione dell’ex ministro Sacconi. Ma dopo il flop del 2002, la Confindustria lo ha abbandonato
La bestia nera della destra italiana e della Confindustria, resta l’articolo 18. La disposizione contenuta nello Statuto dei lavoratori risale al 1970 e risente del clima del ’ 68 e del ’ 69, l’ “autunno caldo” italiano che produsse una corposa legislazione sociale.
Curioso che a cercare di scardinare la norma voluta da un socialista riformista come Giacomo Brodolini – ministro del Lavoro nel 1969 ispiratore dello Statuto scritto poi da un altro socialista, Gino Giugni – sia stato sempre un altro socialista come Maurizio Sacconi, legato a Gianni De Michelis e vicecapogruppo del partito di Craxi a metà degli anni 80. Da ministro del Lavoro nell’ultimo governo Berlusconi, e da sottosegretario allo stesso dicastero nel 2001-2006, Sacconi si è speso molto contro quella legge.
L’OFFENSIVA inizia già nel 2001 quando il governo Berlusconi decide di onorare il “patto di Parma” con la Confindustria di Antonio D’Amato, nel marzo del 2001, quando il leader degli industriali chiedeva maggiore “libertà di licenziare”. La protesta della Cgil, senza Cisl e Uil, è immediata e il 23 marzo 2002 con l’allora segretario Sergio Cofferati promuove la più grande manifestazione sindacale della storia italiana con circa 3 milioni di persone al Circo Massimo di Roma. L’articolo 18 è limitato alle imprese con più di 15 dipendenti “ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore” licenziato “senza giusta causa” serve come garanzia rispetto alle discriminazioni, ma viene accusato di irrigidire il mercato del lavoro e di impedire alle imprese di evolvere e crescere. A cercare di smussarlo, limitarlo o imbalsamarlo ci provano anche esponenti del Pd, come il senatore Pietro Ichino che vuole sterilizzato in cambio di maggiori garanzie per i nuovi assunti.
Nel 2002-2003 Rifondazione comunista si impegna in un referendum per l’estensione dell’articolo 18 anche alle imprese con meno di 15 dipendenti. L’operazione non riesce, anche per la scelta degli allora Ds, e dello stesso Cofferati, di non partecipare al voto: vota solo il 25 per cento dell’elettorato, niente quorum. L’intera vicenda produce un ripensamento in Confindustria. La linea “dura” di D’Amato viene sconfitta nel 2004 dall’ascesa di Luca Cordero di Montezemolo alla guida degli industriali. Riparte il dialogo con il sindacato. Per lungo tempo di articolo 18 non si parla più.
CI PENSA PERÒ Sacconi a riproporre il tema. Il primo tentativo passa per il cosiddetto Collegato lavoro, un disegno di legge nel quale viene introdotto l’arbitrato, al posto del processo, per la risoluzione delle cause relative al licenziamento ingiustificato. Ma il Quirinale boccia la norma e invita il Parlamento a prevedere l’arbitrato solo in presenza di una scelta effettiva da parte dei lavoratori. Intanto, la Confindustria, dopo l’accordo separato del 2009 con Cisl e Uil sulle deroghe contrattuali e gli accordi di secondo livello e dopo lo scontro furibondo che vede opposti la Fiat e la Fiom-Cgil, inizia a tessere un nuovo dialogo con la Cgil di Guglielmo Epifani prima e di Susanna Camusso poi. Il 28 giugno 2011 Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, siglano un accordo sulla contrattazione e la rappresentanza. Nessun riferimento, però, all’articolo 18. Ancora una volta è Sacconi a smuovere le acque inserendo nella manovra estiva – senza alcun nesso con le turbolenze sul mercato del debito e le necessità di risanare i conti – quell’articolo 8 con il quale si stabilisce che i contratti di lavoro siglati in azienda o a livello territoriale, possono derogare ai contratti nazionali e “alle disposizioni di legge”, quindi anche allo Statuto dei lavoratori.L’unico limite è la necessità di un accordo con i sindacati “maggioritari” in azienda. Cgil, Cisl e Uil decidono di firmare un’intesa in cui si impegnano a non utilizzare quella norma che, per quanto sterilizzata, verrà approvata dal Parlamento. E arriviamo a oggi.
Il governo ha già detto che dopo la manovra intende porre mano alla “riforma del mercato del lavoro”. Nel suo discorso di insediamento Mario Monti ha scelto un approccio cauto. Ma ai sindacati non è piaciuta la mancanza di consultazione con cui è stata varata la manovra. Interpellati sull’articolo 18, sono quasi tutti d’accordo nel dire che non si siederanno a un tavolo “per facilitare i licenziamenti”. Non è chiaro, però, cosa succederà se il governo presenterà, come sembra, una riforma complessiva che tenga conto degli ammortizzatori sociali, del welfare, della rappresentanza sindaca-le (vedi Fiat) e, anche dell’articolo 18. La Fiom, che chiede una modifica dell’articolo 19 dello Statuto, per garantirsi la rappresentanza nelle aziende Fiat, non intende allargare il confronto. La Cgil nemmeno. Certamente, però, la prossima volta non ci saranno i sotterfugi di Sacconi. La prossima volta si discuterà alla luce del sole.
ilfattoquotidiano.it – 18 dicembre 2011
Manovra, la seconda fase. Il governo riparte con lavoro e liberalizzazioni
Archiviata alla Camera la maximanovra, il governo Monti adesso vorrebbe avere un po’ di tempo per rifiatare e raccogliere le idee. Di tempo non ce n’è: è imminente – anche se non porterà sorprese – la discussione del provvedimento al Senato. E subito dopo ci sarà il lavoro di preparazione del decreto milleproroghe di fine anno, un appuntamento ormai fisso dei lavori parlamentari. Secondo certi osservatori, il «milleproroghe» potrebbe essere il veicolo giusto per nuovi significativi provvedimenti di riforma. Addirittura, una massiccia dose di liberalizzazioni. Ma come spiegano fonti di governo, in questo decreto sarà possibile inserire soltanto modeste correzioni alle misure varate con la maximanovra, aggiustando in aspetti limitati errori o imprecisioni dell’articolato partorito a Montecitorio.
C’è un pesantissimo precedente a suggerire al governo di usare prudenza: l’anno scorso Giulio Tremonti farcì il «milleproroghe» di molte misure «non proroga». Il presidente della Repubblica Napolitano non gradì, e manifestò pesanti dubbi sulla costituzionalità. Certo è che alcune, limitate, modifiche ci saranno. Alcune le vogliono i partiti, altre sono in pratiche dovute per sciogliere una serie di incertezze e dubbi interpretativi. Della prima lista fa parte il tentativo del Pd di eliminare la penalizzazione per chi va in pensione prima dei 62 anni. Della seconda, un’ambiguità che riguarda le detrazioni per i figli ai fini del pagamento della nuova Imu sugli immobili.
Per vedere un possibile ritorno di fiamma delle liberalizzazioni e per il varo delle altre grandi riforme annunciate da Monti al momento del suo insediamento (ovvero ammortizzatori sociali e mercato del lavoro) invece bisognerà attendere. Probabilmente, almeno la seconda metà di gennaio. Del resto, lo stesso premier ha affermato che le misure finora varate rappresentano «un inizio di un percorso» che proseguirà «nelle prossime settimane con elementi più meditati ed organici». Ora ci sarà spazio invece per un pacchetto di interventi su opere pubbliche, infrastrutture e sostegno alle imprese su cui sta lavorando il ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera.
Un tempo di riflessione, insomma, è necessario. Come spiega il sottosegretario al Tesoro Gianfranco Polillo, «dopo questa prima fase un po’ convulsa adesso bisogna vedere come reagiranno i mercati, e soprattutto il decantamento del quadro internazionale». E poi, perché se finora l’urgenza non ha permesso riflessione e confronto, per riprendere le fila del discorso sulle liberalizzazioni e per avviare la delicatissima partita sulla mercato del lavoro e ammortizzatori sociali sembra farsi strada la volontà di non andarci giù con l’accetta. Ma di cercare piuttosto – almeno nei limiti del possibile – il dialogo per trovare un certo consenso.
Non sarà facile. Anche perché se fuori dal governo c’è chi incita l’Esecutivo ad affondare la spada con coraggio, Monti è consapevole che la strada è assai stretta. E che i provvedimenti vanno presentati in Parlamento con la certezza di non avere brutte sorprese. Per quanto riguarda le liberalizzazioni, nelle stanze di Palazzo Chigi ancora non si è deciso se andare all’assalto all’arma bianca o cercare una collaborazione con le categorie interessate, ad esempio gli ordini. Per quanto riguarda la riforma del mercato del lavoro, per adesso le uniche due certezze sono la volontà di aprire un tavolo di confronto con i sindacati, e soprattutto il percorso metodologico. Ovvero, si partirà prima dalla riforma degli ammortizzatori sociali per chi il lavoro lo ha perso, rischia di perderlo o lo perderà. Per arrivare solo successivamente ad affrontare il nodo dei licenziamenti, insomma dell’articolo 18.
O almeno: queste sono le richieste formulate a Monti e al ministro del Welfare Elsa Fornero dal Pd, che altrimenti si troverebbe in serio imbarazzo nel mandar giù un boccone tanto amaro e indigesto. E forse non ce la farebbe proprio a ingoiarlo. Certamente, spiega il deputato del Pd Pier Paolo Baretta, «una riforma della rete di protezione sociale di fatto renderebbe relativamente marginale la questione dell’articolo 18». Per il momento, i sindacati confederali dicono compatti di no, cosa che porterebbe il Pd ad allinearsi.
Qualcuno già prevede che di mercato del lavoro se ne parlerà solo in primavera. Sempre a primavera, poi, si aprirà un altro nodo complicato: la trattativa sulla delega fiscale-previdenziale-assistenziale. Bisogna trovare risparmi per 4 miliardi; altrimenti scatterà l’aumento dell’Iva, che Palazzo Chigi vorrebbe evitare.
corriere.it – 18 dicembre 2011