di Roberto Giovannini. In un paese normale, moderno, europeo, dotato di una classe politica seria, la sentenza su Porto Tolle del processo «Enel bis» non sarebbe esistita. Semplicemente perché non sarebbe mai stato possibile tenere «accesa» neanche un minuto una centrale concepita negli anni ’70 a nafta pesante ad alto contenuto di zolfo. Ma siccome siamo in Italia, il paese delle eccezioni, delle deroghe, delle norme ad personam, governi e parlamenti hanno concesso all’Enel una serie di deroghe per farla funzionare «legalmente». Si è «chiuso un occhio» per la bellezza di tredici anni. A spese dei cittadini che respiravano aria avvelenata. Un termine che non pare usato a sproposito. La centrale di Porto Tolle ha scaricato nell’atmosfera (oltre alle emissioni di CO2 che produce l’effetto serra, ma questo è un altro discorso) quantità mostruose di veleni nocivi per la salute delle persone.
Nel 1990, quando vennero fissati i limiti di legge per le emissioni nocive, la centrale Enel «Polesine Camerini» emetteva dodici volte le quantità consentite di anidride solforosa; quattro volte per gli ossidi di azoto; due volte e mezza per quanto riguarda le polveri.
Sostanze pericolosissime, che come si legge nella perizia dell’Ispra (l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) hanno provocato un significativo aumento dei ricoveri ospedalieri per malattie respiratorie della popolazione infantile della zona. E generato costi economici esterni (in termini di costi per la sanità e per le morti premature causate dall’inquinamento) per 3,6 miliardi di euro. Soldi che in teoria l’Enel dovrebbe ridare allo Stato, che al processo «Enel bis» si è costituito parte civile con i ministeri dell’Ambiente e della Salute. Contro l’Enel , che per il 30% circa è di proprietà di un altro ministero, quello del Tesoro.
È solo uno dei tanti elementi assurdi di questa vicenda. Il più demenziale è che l’Enel ha potuto far funzionare la centrale di Porto Tolle rispettando apparentemente al cento per cento la legge. Sì, perché lo stesso Stato che nel 1988 (su imposizione dell’Europa) stabilì che dovevano essere fissati dei limiti di legge alle emissioni industriali nocive, in quel decreto ministeriale del 1990, garantiva ad Enel la possibilità appunto di derogare legalmente fino al 2002 ai limiti, in cambio di un graduale adeguamento. Col passare degli anni l’azienda ha parzialmente ridotto le emissioni nocive della sua centrale più inquinante, questo è vero. Ma sempre senza introdurre le tecnologie di prevenzione – in particolare desolforatori e denitrificatori – che Enel adottava per altre sue centrali elettriche. Ad esempio, la riduzione delle emissioni di anidride solforosa è stata ottenuta semplicemente bruciando olio combustibile (nafta pesante) a minor tenore di zolfo. Porto Tolle, dice la perizia dell’Ispra, «risulta l’unica di proprietà di Enel non ambientalizzata». Per evitare la chiusura, Enel chiese e ottenne dal governo Berlusconi una nuova deroga, usando il pretesto della necessità di garantire gli approvvigionamenti elettrici. L’anno dopo, col decreto legge 25/2003, arriva una nuova deroga alle prescrizioni fissate ormai nel lontanissimo 1990.
La centrale non avrebbe dovuto operare mai. La deroga sarebbe dovuta durare per due o tre anni al massimo. Non è un caso che dal 2005, dovendo rispettare le leggi sulle emissioni), Porto Tolle in pratica è stata tenuta spenta. Enel ha provato a convertirla a carbone, ma questo non avverrà: l’impatto ambientale è eccessivo, e soprattutto quei 2.660 MW di elettricità non servono più al Paese, che va sempre di più ad elettricità da rinnovabili. (La Stampa – 1 aprile 2014)
Enel, condannati Scaroni e Tatò per il disastro ambientale di Porto Tolle. Interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. Danni per 3,6 miliardi di euro
Il Tribunale di Rovigo ha accolto le tesi dell’accusa secondo cui gli ex vertici di Enel non avrebbero installato adeguati dispositivi per monitorare l’inquinamento provocato dalla centrale. Chiesta l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. Danni per 3,6 miliardi di euro
Una sentenza che farà sicuramente discutere. E che sarà letta con attenzione anche in altre parti d’Italia, dove negli ultimi anni si stanno combattendo battaglie simili nelle aule dei tribunali. Il Tribunale di Rovigo ha condannato a tre anni di reclusione per disastro ambientale gli ex vertici dell’Enel, al termine del processo di primo grado per quanto avvenuto alla centrale di Porto Tolle. La sentenza è stata emessa nei confronti di Franco Tatò e Paolo Scaroni, i due manager che ricoprivano la carica di amministratori delegati all’epoca dei fatti sotto accusa. Per entrambi è scattata anche la pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Assolto Fulvio Conti, attuale ad, per mancanza di elemento soggettivo.
Due ex amministratori delegati di Enel hanno permesso che, da fine anni Novanta fino a metà dello scorso decennio, la centrale di Porto Tolle operasse senza opportune strategie di contenimento delle emissioni in atmosfera. E’ quanto emerge dalla sentenza di ieri del tribunale di Rovigo, che dopo sei ore di camera di consiglio – e una ventina di udienze – ha condannato gli ex ad di Enel Franco Tatò (in carica dal 1996 al 2002) e Paolo Scaroni (2002-2005) a tre anni ciascuno. I due manager sono stati riconosciuti responsabili di aver compiuto, dal 1998 al 2005, «atti idonei a determinare un disastro ambientale con conseguente pericolo per la pubblica incolumità» riguardo all’attività della centrale termoelettrica di Porto Tolle. Per i due è stata decisa anche l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni a testa.
Pesanti anche le provvisionali, 410.000 euro in tutto, decise dal collegio presieduto da Cristina Angeletti, con giudici a latere Silvia Varotto e Gilberto Stigliano Messuti, a carico dei due manager. Al Ministero dell’Ambiente andranno 50.000 euro, a quello della Sanità 100.000; 70.000 ciascuno a Provincia di Rovigo e ai Comuni di Porto Tolle e Rosolina; 20.000 euro a Legambiente, e 10.000 a testa a Greenpeace, Italia Nostra e Wwf. Per Tatò e Scaroni, peraltro, è la seconda disavventura giudiziaria in Polesine legata ai loro incarichi Enel. Esattamente otto anni fa, il 31 marzo 2006 ad Adria, i manager furono condannati: Tatò a sette mesi con pena sospesa e Scaroni a un mese convertito in ammenda di 1.140 euro. In quel caso l’accusa era di getto pericoloso di cose. Non diversamente da quanto contestato nel procedimento conclusosi ieri, anche in quel processo finirono sotto accusa le scelte strategiche dell’azienda energetica.
Assolti a vario titolo, invece, gli altri sette imputati. Ovvero l’attuale ad di Enel Fulvio Conti, Leonardo Arrighi che aveva siglato il progetto di conversione a carbone per conto di Enel Produzione, oggi Gem, e per gli ex presidenti di Enel Produzione Alfredo Inesi, Antonino Craparotta e Sandro Fontecedro. Assoluzione anche per l’ex direttore della centrale di Porto Tolle Carlo Zanatta e per il suo predecessore Renzo Busatto. Nessuno di loro era presente in aula. A fine gennaio, il pm Manuela Fasolato aveva chiesto complessivi trentatre anni e nove mesi di condanna per gli ex vertici e l’attuale ad di Enel Conti, accusati a vario titolo anche di omessa installazione di apparecchi al fine di prevenire il deterioramento dell’ambiente circostante. Per il pm Manuela Fasolato undici anni di attività ad olio della centrale Enel di Porto Tolle, dal 1998 al 2009, hanno provocato la nascita di patologie respiratorie nei minorenni residenti in un raggio di 25 chilometri dall’impianto.
Immediata, e improntata allo sconcerto, la reazione di Paolo Scaroni: «Sono completamente estraneo alla vicenda e farò immediatamente ricorso», ha detto all’Ansa l’attuale ad di Eni. «Sono stupefatto da questa decisione. Come dimostrato dalle difese la centrale Enel di Porto Tolle ha sempre rispettato gli standard in vigore anche all’epoca dei fatti». Per Tatò, che pure annuncia appello, è «una sentenza assurda che scuote la mia teutonica fiducia nella giustizia». Soddisfatto invece Fulvio Conti: «La sentenza dimostra la mia totale estraneità rispetto alle accuse sollevate in questi mesi di dibattimento. La centrale di Porto Tolle ha sempre operato nel rispetto delle leggi – conclude – e delle prescrizioni sia regionali sia nazionali».
Secondo il collegio degli avvocati difensori, poi, «nessun disastro sanitario e ambientale è stato riconosciuto dal tribunale di Rovigo. E’ caduto dunque il nucleo fondamentale della tesi di accusa e della consulenza epidemiologica su cui aveva puntato il Pm». Ora, spiegano gli avvocati, «manca solo un tassello alla affermazione della piena estraneità del funzionamento della centrale anche ad una ipotetica situazione di pericolo. Ossia la piena assoluzione di chi, come Franco Tatò e Paolo Scaroni, ha sempre operato nel pieno rispetto delle leggi. Siamo convinti che in appello la verità dei fatti possa essere ristabilita». (Corriere Veneto e Repubblica – 1 aprile 2014)