Marco Zatterin. Caccia al «pesce frode», una delle pietanze più servite sulle tavole degli italiani e non solo. Lo scorso autunno uno studio universitario commissionato dalla ong Oceana ha rivelato che, nei ristoranti di Bruxelles, quasi un piatto di mare su tre non è quello promesso dal menu. Il più taroccato è il tonno, soprattutto in versione sashimi e sushi, ma la truffa non risparmia merluzzi e branzini.
Soprattutto, non si ferma ai locali pubblici e colpisce anche le famiglie che fanno la spesa in mercati, rionali o super. «Bisogna tracciare i prodotti», chiede ora l’europarlamento, che invita i governi a istituire sistemi di controllo che seguano il prodotto dalla paranza alla nostra bocca e denuncino gli errori. Che, spesso, sono volontari. E’ un problema di etica e di etichetta.
Esperti e associazioni varie denunciano l’alta frequenza con cui il pangasio del Mekong, pescato in acque fra le più inquinate del mondo, viene spacciato per cernia o baccalà, cosa che succede anche al filetto di brosme che proviene dall’Atlantico settentrionale, o alla perca del Nilo. Capita anche con l’halibut, o con la linguata senegalese, che diventano facilmente sogliole per i palati meno attenti. Tutte minacce che vengono in genere da fuori. Perché, notano alla la Guardia Costiera italiana, il grosso delle infrazioni si riscontra in fase di commercializzazione e non a causa dei pescatori. L’80 per cento delle frodi riguarda le casse importate, nella migliore delle ipotesi per colpa di errate traduzioni dell’etichetta originale.
Prodotti adulterati
I peccati più diffusi sono la sostituzione di un pesce per l’altro – in genere uno meno costoso al più di uno più pregiato – e l’adulterazione del prodotto. C’è chi ricorre all’acqua ossigenata per sbiancare le carni (è illegale) o al monossido di carbonio per evitare l’ossidazione e far sì che il tonno mantenga il colore rosso che aveva da vivo. Recentemente, rivela Renata Briano, eurodeputata Pd, il ministero della Sanità ha autorizzato a rigenerare con l’acqua ossigenata. «Non fa male – dice la parlamentare genovese – ma è giusto che il consumatore sappia cosa mangia davvero».
L’ultima analisi a campione (ridotto) compiuta dall’Unione europea nel 2015 sostiene che il pesce frode è servito nel sei per cento dei casi, con punte del 27% a Malta. «Ho la sensazione che il dato medio sia ragionevole anche per l’Italia», spiega la Briano, convinta che da noi ci siano molti casi virtuosi. Ad esempio, nel 2015 la Guardia costiera ha effettuato nel Nordovest 3875 ispezioni che hanno originato oltre 39 mila controlli e portato al sequestro di 45 mila chili di pesce. La stessa autorità ha avviato una collaborazione con Piemonte, Liguria e Lombardia per effettuare insieme i controlli. Mentre i pescatori di Molfetta si sono direttamente legati alla filiere di terra.
L’Europarlamento voterà domani un documento che invoca un sistema di «tracciabilità rigorosa contro l’etichettatura errata del pesce». Si vogliono verifiche nazionali sul pesce che arriva ai ristoranti e misure che permettano di ricostruire tutti i passaggi dal momento in cui ogni singolo esemplare è strappato al Grande Blu. «Bisognerebbe pensare a un codice a barre legato al Dna», chiede la risoluzione non vincolante. E che tutte le informazioni rilevanti fossero ben scritte sull’etichetta, in modo che il consumatore sappia ciò che serve e si tuteli chi fa il proprio lavoro onestamente. Una delle ultime richieste ha del surreale. Ora come ora, il pesce proveniente dalla Galizia e dal Golfo di Cadice è presentato come proveniente da «acque portoghesi», quello preso al largo del Galles è del «mare d’Irlanda» e le catture bretoni sono del «Golfo di Biscaglia». Sarebbe un problema economico. Ma così diventa anche politico.
La stampa – 11 maggio 2016