di Bruno Dente. Dalla fase 2 del governo Monti è lecito aspettarsi il rilancio di un dibattito serio sulle riforme delle pubbliche amministrazioni. Perché a conclusione delle spending review si dovrà affrontare una serie molto ampia di ristrutturazioni aziendali in modo da ridurre i costi fissi e migliorare l’efficienza complessiva del sistema.
Si presenterà allora il problema di che fare del personale in eccesso. E serviranno previsioni normative e contrattuali finora del tutto assenti. Ma non basta: dovrà trovare spazio anche nel pubblico impiego la figura del tagliatore di teste.
Tra le molte cose che è lecito attendersi dalla fase 2 del governo Monti vi è senza dubbio il rilancio di un dibattito serio sulle riforme delle pubbliche amministrazioni.
Su questo tema, infatti, l’esecutivo è stato sino ad ora stranamente reticente, al punto di procedere alla nomina del ministro della Funzione pubblica solo in un secondo momento, e quasi come un ripensamento dell’ultimo istante.
IL DOPO BRUNETTA
Dopo l’eccesso di enfasi che ha accompagnato l’approvazione della cosiddetta riforma Brunetta e dopo l’entusiasmo, assolutamente bipartisan, per le virtù salvifiche dell’introduzione generalizzata della valutazione del personale, un po’ di sobrietà è commendevole. Gli effetti della riforma Brunetta sono stati infatti quelli che ci si poteva aspettare, e cioè assolutamente nulli, per il combinato disposto della sua debolezza concettuale, delle (ovvie) tendenze all’elusione e delle stesse manovre di Giulio Tremonti, il blocco della contrattazione, in primo luogo.
Il rischio però è che il governo pensi che il modo di intervenire sul “corpaccione” del pubblico impiego non possa che continuare a essere quello tradizionalmente preferito dalla cultura economica e giuridica dominante: congelamento dei salari, riduzione dei trasferimenti (vedi i limiti alla spesa per formazione e consulenze), semplificazione via unificazione degli apparati (fusione Inps-Inpdap, quasi abolizione delle province, ecc.) e, soprattutto, blocco del turn-over.
Si tratta, se si vuole, della stessa filosofia dei tagli lineari che è stata, più o meno a ragione, criticata negli ultimi tempi.
Tuttavia, occorre sottolineare con forza come interventi orizzontali su un settore economico che impiega direttamente quasi 4 milioni di persone, possano ottenere, forse, risparmi nel breve periodo, ma lascino inevitabilmente intatti tutti i problemi strutturali. Inoltre tendono a considerare il comparto delle amministrazioni pubbliche come un insieme omogeneo, senza distinguere tra quelle efficienti e quelle inefficienti, tra quelle che svolgono un servizio utile e quelle le cui attività sono positivamente dannose per il paese e la sua crescita economica. Infine, e questo è anche più grave, impediscono il rinnovamento del personale senza il quale, in organizzazioni di servizio la cui efficacia è strettamente legata alla qualità delle risorse umane, sono inevitabili la decadenza e in definitiva l’innesco del circolo vizioso dell’inefficienza.
Ciò è tanto più grave alla luce della spending review che lo Stato italiano, nelle sue varie articolazioni, sarà costretto a fare nei prossimi mesi. È inutile illudersi: se fatto seriamente questo esercizio dovrà portare alla riduzione, tipologica e quantitativa, degli interventi pubblici. Bisognerà fare meno cose e spendere meno in quelle che non si possono abbandonare. E, purtroppo, non sarà sufficiente tagliare gli sprechi, ma bisognerà dismettere, sia pure a malincuore, servizi e programmi anche di qualità, ma troppo costosi per le esauste finanze pubbliche.
LA QUESTIONE DEL PERSONALE IN ECCESSO
A quel punto si porrà – ma in realtà già oggi si pone – il problema di che fare del personale in eccesso. Si tratterà, insomma, di affrontare una serie molto ampia di ristrutturazioni aziendali in modo da ridurre i costi fissi e migliorare l’efficienza complessiva del sistema. In definitiva, il problema non è molto differente da quello di una grande impresa che decide di ripensare la propria strategia concentrandosi sulle cose che sa fare meglio e che rendono di più, dismettendo o esternalizzando quelle che rappresentano una palla al piede o non ci si possono più permettere.
Rispetto a questa esigenza, però, le pubbliche amministrazioni sono completamente impreparate. Non solo non vi è alcuna tradizione in questo senso, ma non esiste nemmeno nessuna chiara procedura che si possa attivare. L’idea che un’organizzazione pubblica voglia ridurre i suoi dipendenti per motivi differenti dall’imposizione dall’alto, e con modalità diverse dal blocco delle assunzioni, non ha mai, nemmeno di lontano, sfiorato le menti dei nostri governanti e dei nostri legislatori. Talvolta, e in genere per impulso di dirigenti coraggiosi, si è effettivamente fatto qualcosa del genere, ma attraverso una serie di escamotage e spesso sotto traccia.
Ecco, allora, un punto urgente da mettere sull’agenda del governo.
Occorre, al più presto e comunque prima che le spending review siano completate, predisporre il quadro, anche legislativo, all’interno del quale sia possibile operare delle ristrutturazioni aziendali efficaci. Ciò comporta tutta una serie di previsioni normative e contrattuali: dalla possibilità di agevolare le dimissioni volontarie all’uso della cassa integrazione e degli altri ammortizzatori sociali, dalla modifica delle regole contabili per permettere di ammortizzare i costi di ristrutturazione in più esercizi finanziari alle modalità stesse attraverso cui aprire la procedura di ristrutturazione (l’equivalente della dichiarazione di crisi aziendale). Oggi questo quadro è assente o è terribilmente confuso, e in sua assenza, come è ovvio, non succede assolutamente niente.
Ministri esperti come Piero Giarda, Filippo Patroni Griffi e, perché no, Corrado Passera che nella vicenda delle Poste ha certamente accumulato un’esperienza importante nel settore pubblico, debbono predisporre il più rapidamente possibile la legislazione necessaria e creare i centri interni o esterni di competenza che aiutino le pubbliche amministrazioni a muoversi su questa, difficile, strada.
Un’ultima notazione. L’esistenza di un quadro normativo e organizzativo rappresenta senza alcun dubbio una condizione necessaria, ma altrettanto certamente non è sufficiente. La riduzione dei costi e il recupero di efficienza degli apparati pubblici non può farsi per decreto o attraverso l’introduzione generalizzata di una procedura (era questo l’errore fatale della riforma Brunetta), ma implica di necessità, come mostra l’esperienza del settore privato, manager esperti (e probabilmente consulenti preparati). La tanto deprecata figura del “tagliatore di teste” deve trovare spazio anche nel pubblico impiego. A parte ogni altra considerazione servirebbe a fare aumentare la credibilità della Pa agli occhi dei molti milioni di cittadini e di lavoratori che non godono nemmeno di lontano delle garanzie proprie dei dipendenti pubblici.
Lavoce.info – 17 gennaio 2012