Fra i giovani diplomati e laureati italiani che cercano un posto e lo schema di garanzia europeo che, dal gennaio 2014, dovrebbe trovar loro un impiego entro quattro mesi dalla fine degli studi, c’è di mezzo un risoluto riassetto della macchina amministrativa nazionale.
Lo Youth Guarantee Scheme è «una cornice importante», concede il ministro del Welfare, Enrico Giovannini, in visita a Bruxelles per incontrare l’omologo della Commissione Ue, László Andor.
Lo è perché potrebbe portare nella penisola qualcosa come 400-600 milioni e «va rapidamente attivato per evitare di perdere capitale umano».
Il problema, nota però l’ex presidente dell’Istat, «è la debolezza dei servizi all’impiego, che non sono a livello adeguato per gestire grandi masse di fondi». A Roma dovranno rimboccarsi le maniche visto che il tempo stringe.
Lo schema di garanzia è stato approvato dai Ventisette in primavera e, nella sua lettera di sabato ai leader Ue sulla disoccupazione giovane il presidente del Consiglio, Herman Van Rompuy, ha invitato le capitali a impegnarsi per un pieno decollo dell’iniziativa da gennaio a vantaggio dei giovani.
Fonti della Commissione sottolineano che tocca ai singoli paesi predisporre i meccanismi per coordinare l’investimento dei 6 miliardi messi in bilancio da Bruxelles. Servono a scavare un impiego, o a pagare un’ulteriore formazione che faccia da ponte fra la scuola e l’unverso degli occupati, nello spazio di 120 giorni dal primo tentativo.
In Austria e Finlandia è una formula che funziona da tempo. Giovannini avverte che prima di stabilire quanto l’Italia potrà investire, bisogna badare al come. «Non sono cose che si fanno in una notte», confessa.
A suo avviso sarebbe meglio concentrare l’impegno nella fase iniziale del settennato indicato dall’Ue, perché «pensare di poter spalmare l’azione e avere dei risultati è una illusione». I piani senza capacità di spesa come successo coi fondi strutturali, aggiunge, provocano ritardi.
Oltretutto, l’autorità di spesa è condivisa fra amministrazione centrale e regioni. «Meglio essere sicuri che sia fattibile – nota il ministro – prima di andare a guardare le cifre».
Non vede male l’ipotesi di un maggior ricorso al confinamento della Bei, la Banca europea per gli investimenti, e non potrebbe essere altrimenti. L’idea circola come possibile proposta congiunta franco-tedesca. Vi si potrebbe attingere per lo schema di garanzia? La risposta è «si e no».
Secondo Giovannini non «si deve pensare al lavoro dipendente come alla soluzione di tutti i mali, sarebbe un errore intellettuale». Occorre ragionare «anche su incentivi per le imprese, anche piccolissime», quindi valutare dove sia meglio far confluire i denari. La sfida è combinare la programmazione con le riforme. L’Italia, ha riconosciuto il ministro del Welfare, ha margini di spesa limitati, anche se la probabile uscita dalla procedura di deficit eccessivo attesa per domani in Commissione Ue, libererà risorse importanti, da 7 a 12 miliardi.
Giovannini guarda avanti e vede un grande dibattito «sulle eventuali modifiche al Piano di riforme nazionali» che si vuole in giugno, poi rammenta che «questo governo crede profondamente nella contrattazione decentrata con un legame più stretto fra salari e la competitività, cosa su cui Bruxelles è d’accordo».
Il che magari non vuol dire stravolgere l’operato della Fornero. «Attenzione a non attribuire alle riforme effetti che derivano in parte non trascurabile dalla crisi», spiega Giovannini. Gli alibi, in effetti, servono a poco.
La Stampa – 28 maggio 2013