di Roberto La Pira. La Procura di Torino ha chiuso le indagini sul caso delle mozzarelle blu e nel fascicolo di Raffaele Guariniello ci sono tre aziende, la tedesca Jaeger che distribuiva in vari supermercati e Lat Bri che Granarolo ha acquistato di recente e la stessa Granarolo. Secondo quanto riferisce l’Ansa le accuse sono due, vendita di alimenti non genuini e commercializzazione di alimenti in cattivo stato di conservazione. Le indagini, partite nel 2010, avrebbero accertato una contaminazione causata dal batterio Pseudomonas fluorescens presente nell’acqua di lavorazione. La vicenda lascia un po’ perplessi per diversi motivi. Gli esperti sono concordi nel dire che anche le persone che hanno mangiato il giorno prima una mozzarella diventata blu hanno una possibilità remota di ammalarsi
Premesso che la mozzarella colorata presenta un decadimento qualitativo e deve essere ritirata dal mercato trattandosi di alimento alterato, va però spiegato che lo Pseudomonas fluorescens, può conferire una colorazione anomala ma non fa venire il mal di pancia.
Gli esperti sono concordi nel dire che anche le persone che hanno mangiato il giorno prima una mozzarella diventata blu hanno una possibilità remota di ammalarsi. I microbiologi sono d’accordo nel sostenere che la pigmentazione blu non indica la presenza di batteri pericolosi.
L’altro elemento da considerare è che dopo lo scandalo dell’estate 2010 ci sono stati decine di casi di mozzarelle blu, rosa e di altri colori su prodotti confezionati con latte italiano. Gli incidenti si sono però ridotti progressivamente con il passare degli anni grazie all’adozione di nuovi accorgimenti nel processo produttivo. Ma il problema di fondo è un’altro. Lo Pseudomonas fluroscens è un batterio ubiquitario, si trova in molti alimenti e può contaminare anche carne, pesce, vegetali. La colorazione si evidenzia però solo quando prevalgono alcuni ceppi capaci di produrre pigmenti. L’incidente si può quindi presentare in qualsiasi caseificio e non era facilmente gestibile, perché quattro anni fa non esistevano strumenti di prevenzione standardizzati. La colorazione blu non è un indice di scarsa igiene, non è da attribuire ad una carenza di controlli, o a mancanze nella struttura dell’HACCP, ma colpisce in modo casuale. Questo vuol dire che il batterio presente in quantità identiche in due mozzarelle, nella prima può dare colorazione mentre nella seconda non provoca modifiche cromatiche. Si tratta di concetti ripetuti in diversi convegni dai microbiologi degli Istituti zooprofilattici sperimentali, che però non hanno saputo dare una ricetta magica alle aziende per evitare la contaminazione.
L’incidente si può quindi presentare in qualsiasi caseificio e non era facilmente gestibile, perché quattro anni fa non esistevano strumenti di prevenzione standardizzati
Il suggerimento emerso nel corso dell’emergenza è stato quello di incentivare il controllo sulla pastorizzazione, e di inserire nei piani di autocontrollo aziendale la ricerca dello Pseudomonas fluorescens. Si tratta di consigli che hanno permesso di ridurre i casi di mozzarella blu, anche se gli esperti sono concordi nel dire che la contaminazione si può ripresentare soprattutto se la catena del freddo non viene rigorosamente rispettata. Un altro accorgimento utile adottato da diversi produttori di mozzarelle è stato quello di ridurre la vita commerciale del prodotto, riducendo la scadenza da 25 a 15 giorni. Questo aspetto è importante perché se la mozzarella contiene in partenza quantità rilevanti di Pseudomonas fluorescens e viene lasciata a temperatura ambiente dopo 24 ore comincia ad apparire la colorazione , mentre se rimane chiusa in frigorifero serve una o più settimana.
In una situazione poco chiara (4 anni appariva poco chiara anche agli esperti), che senso ha la decisione di Guariniello di chiamare in giudizio tre aziende, quando le realtà coinvolte sono state decine? Qual è la necessità di avviare un’azione di fronte ad un problema che non presenta alcun pericolo per la salute? Come possono difendersi i caseifici coinvolti di fronte ad una questione che solo dopo lo scandalo è stata esaminata con la dovuta attenzione per evitare nuovi episodi? L’azione della magistratura in questo caso desta qualche perplessità, perché non sembra destinato a punire un comportamento scorretto portato avanti con dolo. Non è questo il senso delle nuove norme europee che mirano a prevenire i problemi discutendo con le imprese le criticità cercando di risolverle, più che intervenire attraverso il codice penale nei confronti di situazioni difficili. Il discorso sulla sicurezza alimentare è un elemento importante e Il Fatto Alimentare lo ribadisce ogni giorno nei suoi articoli, ma focalizzare l’attenzione su certi aspetti in modo punitivo forse non vuol dire andare nella direzione giusta.
Riportiamo una parte dell’intervista rilasciata nel maggio 2012 a Il Fatto Alimentare da Giorgio Varisco, direttore sanitario dell’Istituto zooprofilattico sperimentale della Lombardia e dell’Emilia Romagna di Brescia che nei due anni successivi allo scandalo ha effettuato 200 controlli su campioni sospetti.
«Lo Pseudomonas Fluorescens è un batterio largamente diffuso in natura, in particolare nel suolo, nelle acque superficiali e nella vegetazione. Condivide con le altre decine di specie della famiglia Pseudomonas la capacità di adattarsi bene a varie situazioni ambientali e solo quando si trova in determinate condizioni può – o meglio, alcune delle specie note possono – produrre pigmenti che causano colorazioni anomale nei cibi. Tra gli “alimenti-veicolo” del microrganismo ci sono l’acqua, il latte, i vegetali e la carne, ma in realtà lo si trova un po’ dappertutto… Non tutti i ceppi di Pseudomonas fluorescens sono però pigmentanti: perciò questi batteri possono essere presenti anche in concentrazioni elevate senza che ci sia alterazione nel colore del cibo. Per quanto riguarda la filiera del latte, lo Pseudomonas può entrare quando la materia prima utilizzata (latte o semilavorati caseari) è contaminata, oppure attraverso le acque utilizzate nel processo industriale durante le fasi di raffreddamento/rassodamento del prodotto o nella preparazione dei liquidi di governo, o, ancora, in seguito alla contaminazione dei locali di lavorazione. Il microrganismo è in grado di formare un sottilissimo strato di biofilm sulle superficie e sopporta bene anche le basse temperature, con le quali è comunque in grado di moltiplicarsi».
Roberto La Pira – Il Fatto alimentare – 18 febbraio 2014