Francesco Alberti. Una razzia che alimenta il mercato nero all’estero. L’allarme: «Rischiamo il disastro ambientale» . Nei vicoli scrostati di Borgo Fiorito, villaggio turistico mai decollato, accucciato sotto l’argine di Cavanella Po tra orizzonti lunghi e silenzi irreali, la gente e le targhe delle auto parlano solo rumeno. Qui lo Stato un giorno è arrivato. E ha lasciato il segno della legge. I tre garage semicoperti dalla boscaglia sono stati ingabbiati con il nastro adesivo dei provvedimenti di sequestro dopo che la Forestale ha scoperto celle frigorifere capaci di contenere tonnellate di pesce strappato illegalmente al Po per poi essere stoccato in barba alle più elementari norme igieniche e quindi caricato su furgoni verso i mercati dell’Est (ma anche qualche bancarella italiana in vena di sconti).
Appena però lo Stato se n’è andato, i fuorilegge hanno ripreso il sopravvento: «Tempo due settimane e i frigoriferi sono ricomparsi in un container…» sospira il comandante della Forestale di Rovigo, Gianfranco Munari.
Borgo Fiorito è solo uno dei santuari di una guerra sorda, figlia di un dio minore perché elettoralmente di scarsa audience, imbevuta di omertà, minacce e sottile paura, che da anni va in scena in quel miracolo di fauna, flora e acque dolci che è l’areale padano. Da Mantova al Delta, da Venezia a Ravenna, da Rovigo e Ferrara, migliaia di chilometri di Grande Fiume e canali.
È la guerra contro i predoni del Po: «pirati», «barbari», come li chiama la gente di qui. «Prima erano ungheresi, ora romeni: originari del Delta del Danubio, di cui hanno messo a rischio l’integrità ambientale con tecniche di pesca selvaggia, furono costretti ad andarsene per le restrizioni imposte dalle autorità rumene e dall’Unesco, trasferendosi da noi» afferma il presidente della Provincia di Rovigo, il pd Marco Trombini.
Pescatori di gran razza, predatori voraci. «Solo nel Mantovano le indagini hanno portato alla luce almeno 8 bande, ma sono molte di più» aggiunge Claudio Castagnoli, comandante della polizia provinciale di Ferrara. Un esercito di almeno 400 pescatori di frodo. Una sorta di «cupola del pesce» dove nulla è lasciato al caso.
Molti di loro appartengono all’etnia dei Lipoveni, antico popolo del Danubio che vive di pesca ed è di difficile integrazione. Il loro arrivo in Italia coincide con il patto commerciale stipulato nel 2012 tra il Mercato ittico di Milano e il Consolato generale della Romania che puntava «ad assicurare flussi durevoli di prodotti ittici d’acqua dolce da destinare al mercato rumeno». Obiettivo, in effetti, centrato. Le bande, strutturate in clan familiari, agiscono di notte su imbarcazioni veloci spalleggiate da vedette che segnalano l’arrivo delle forze dell’ordine. Più che pescare, fanno tabula rasa di tutto ciò che nuota (pesci siluro, carpe, carassi, cefali, breme). Le loro armi hanno l’effetto di un’atomica sui corsi d’acqua: reti di centinaia di metri, elettrostorditori, sostanze chimiche. E furgoni-frigo per trasportare il pesce da smerciare.
È un business enorme dai contorni indefiniti: ogni clan è in grado di organizzare 2-3 carichi a settimana da 30 quintali ciascuno. Pesce che viene venduto a 10-15 euro al quintale, alla faccia della tracciabilità. Un sistema criminale che può contare, oltre che su una rete commerciale rodata, anche su agguerriti uffici legali per far fronte alle ingiunzioni dello Stato (particolarmente rinomato, si vocifera, un avvocato rumeno del Trevigiano).
«Siamo al limite del disastro ambientale» afferma il presidente della Provincia di Rovigo. Solo a Ferrara, che vanta 4 mila km di canali, in un anno è andato perso un terzo del patrimonio ittico (dati dell’Università). E il sindaco di Adria, Massimo Barbujani: «Nei weekend compaiono tendopoli sulle sponde del Po e le golene si riempiono di resti di pesci». Per i pescatori sportivi è una tragedia: «I predoni ci tolgono la materia prima, arrecano danni all’intero comparto».
Ma il problema è più ampio: violazione delle norme igieniche, evasione fiscale, scarico abusivo di liquami, abusi edilizi. Un mix di reati contro il quali «lo Stato ha le armi spuntate» ammette il comandante Munari. Forestale, Finanza, guardie della Provincia e carabinieri fanno quello che possono, le Prefetture convocano tavoli, ma l’area da controllare è immensa e le risorse limitate. Successi ce ne sono: la Provincia di Ferrara ha recuperato 16 km di reti illegali, 14 barche, 2 motori fuoribordo; la Forestale di Rovigo ha intercettato più di 100 quintali di pesce. Ma manca il coordinamento. «E le sanzioni non hanno effetto sui predatori — afferma il comandante Castagnoli —. Su 46 mila euro di multe elevate, ne sono state riscosse 4500…».
L’unica cosa che i predatori temono è il sequestro dei mezzi. «Ma bisogna entrare nel penale, contestare l’articolo 733 bis sulla distruzione di habitat in un sito protetto: non è così semplice. Noi cerchiamo di sorprenderli, intercettando i furgoni» aggiunge Munari. La Lega, con il capogruppo in Regione Emilia Romagna Alan Fabbri, ha presentato una risoluzione che chiede «un inasprimento delle sanzioni e il sequestro dei mezzi, ma bisognerebbe cominciare a riconoscere la fauna ittica come patrimonio dello Stato». Poi c’è il problema delle licenze professionali. Chiunque la può chiedere alla Provincia, bastano 50 euro: «Ai predatori servono come copertura in caso di controllo — afferma Trombini —, sarebbe ora di sospenderle».
La gente del Po, in questa guerra, c’è dentro fino al collo. Chi organizza ronde anti-romeni. Chi informa la Forestale dei movimenti delle bande (ma sotto anonimato «perché quelli menano»). E chi, per un po’ di pesce gratis, ai predatori dà una mano.
Il Corriere della Sera – 28 febbraio 2015