La pubblica amministrazione italiana non funziona, e gran parte della colpa va attribuita a leggi e regole infinite e pervasive, alla dirigenza politicizzata e corporativa, a un’organizzazione ottocentesca e farraginosa a una cultura burocratica sclerotizzata e invecchiata. Forse alcuni problemi però dipendono anche da un altro tipo di «invecchiamento»: quello anagrafico che ha travolto dal 2000 il personale del comparto.Un processo scatenato evidentemente dalla sfilza di blocchi del turnover – le assunzioni di nuovo personale in sostituzione di quello andato in pensione Pil – che da oltre un decennio sono stati imposti per risparmiare soldi pubblici. Blocchi che sono stati certamente in parte aggirati reclutando personale a tempo determinato o in collaborazione, tendenzialmente più giovane.
Ma che alla fine hanno dato vita a una pubblica amministrazione il cui personale è passato da un’età media di 43,6 anni nel 2001 a una di 48,1 nel 2012. Non per forza di cose disporre di personale relativamente anziano equivale a inefficienza e malfunzionamento. Del resto i cinquantenni di oggi sono molto diversi e «freschi» rispetto ai cinquantenni di qualche decennio orsono. E non si può negare che il processo di invecchiamento dei «travet» ricalca da vicino l’analogo processo che ha coinvolto l’intera società italiana. Ma non c’è dubbio che una forza lavoro più giovane, oltre ad essere più agile mentalmente e culturalmente (e in teoria dotata di una migliore qualificazione scolastica) è anche più pronta ad accettare i drastici cambiamenti organizzativi (e soprattutto di cultura organizzativa) che tutti gli addetti ai lavori ritengono indispensabili al Paese. Dopo di che, se quello del ringiovanimento del personale pubblico è l’obiettivo, non ci sono grandissime alternative: o si allenta la morsa del blocco del turnover, favorendo assunzioni «mirate» di ragazzi qualificati ma aumentando i costi per pensioni e stipendi, oppure ci si tiene il personale che c’è, riorganizzandolo nel modo migliore possibile.
I numeri, comunque, sono chiarissimi. Secondo la Ragioneria dello Stato, appunto, nel 2012 l’età media del personale «stabile» era di 48,1 anni. Un dato che inganna, visto che nel pubblico impiego ci sono comparti come le Forze armate e i Corpi di polizia che per forza di cose sono più «giovani» (rispettivamente, 36,7 e 42,2 anni in media). I più anziani (esclusi i Prefetti) sono i ministeriali (51,9 anni) e il personale degli enti pubblici non economici (51). Il processo di invecchiamento è stato generale, con l’eccezione della scuola e della ricerca, che sostanzialmente hanno mantenuto un’età media intorno ai 50 anni.
L’altra faccia della medaglia è il bassissimo numero di giovani presenti nella pubblica amministrazione. Considerando l’intero settore nel 2011, solo il 4,2% del personale può vantare meno di 29 anni di età. Il 16,8% sta nella fascia 30-39, contro il 34,8% di quarantenni, il 37,8% di cinquantenni, e addirittura il 6,3% di ultrasessantenni. Negli enti pubblici non economici, nella ricerca, nei ministeri, nell’università e in magistratura c’è meno di un dipendente su cento con meno di 29 anni. La scuola conta esattamente un solo giovane su cento dipendenti. La maestrina dalla penna rossa è davvero solo un ricordo.
La Stampa – 30 marzo 2014