Ecco l’accordo raggiunto dalla conferenza tra Stato, città e autonomie locali che sposta di sei mesi la centralizzazione delle spese per beni e servizi e di un anno quella sugli appalti dei lavori pubblici.
Federico Fubini. La scure era arrivata in un passaggio del decreto Irpef del 24 aprile scorso, all’articolo 9, comma 5. Senza sconti per nessuno: «Il numero complessivo dei soggetti aggregatori presenti sul territorio nazionale non può essere superiore a 35». In altri termini, bisognava chiudere una volta per tutte con la vecchia abitudine delle 34 mila piccole centrali d’acquisto distribuite per provincie e comuni d’Italia e capaci distribuire a pioggia appalti, contratti pubblici di fornitura, incarichi di consulenza per conto delle amministrazioni pubbliche.
Questa riforma era, e resta, un architrave della spending review e dunque della legge di Stabilità da presentare dopo l’estate: niente più piccole commesse pulviscolari dai costi spesso superiori al necessario, ma solo operazioni uniche per gli uffici pubblici condotte attraversi grandi centri d’acquisto specializzati. Più scrivanie, computer, stampanti e benzina per le giunte comunali si comprano allo stesso tempo, tramite un unico acquirente, meno le si paga.
Fin qui la teoria. Nella pratica invece le migliori intenzioni del governo si sono già arenate sulla resistenza del partito dei sindaci, che è riuscito con un’abile azione di lobby a rinviare la riforma delle centrali d’acquisto. È avvenuto un po’ alla chetichella lo scorso 10 luglio, ma in una sede altamente formale: presso la presidenza del Consiglio dei ministri, nella conferenza fra Stato, città e autonomie locali. L’incontro, presieduto per il governo dal ministro dell’Interno Angelino Alfano, era stato preceduto da una mossa dell’Anci, l’associazione dei comuni d’Italia guidata da Piero Fassino.
L’Anci ha scritto al governo e ha fatto presente che la riforma delle centrali d’acquisto, che doveva entrare in vigore un mese fa, è inapplicabile. La tesi è che i Comuni non capoluogo di provincia non avrebbero avuto tempo di coalizzarsi in grandi centrali appaltanti. In questo caso la legge prevederebbe che si riforniscano di ciò che serve presso la Consip, la società del Tesoro che funge da maxi-acquirente unico per lo Stato a prezzi molto competitivi. Purtroppo però per l’associazione dei sindaci neppure questo è possibile: «Consip e le altre (principali, ndr) centrali di acquisto non coprono tutte le esigenze degli enti locali».
Si può cercare di immaginare quale specifico tipo di fotocopiatrice o di sedia da ufficio, che la Consip non può fornire, richieda un certo Comune da 800 abitanti sull’Appennino tosco-emiliano o sulla Sila. Ma la sostanza non cambia: la conferenza Stato-città ha già ottenuto il primo rinvio della riforma appena varata. L’aggregazione dei centri di spesa viene posticipata di sei mesi per gli acquisti di beni e servizi, di un anno intero per gli appalti sui lavori pubblici. I Comuni anche più piccoli potranno continuare a determinare da soli le proprie commesse, ovviamente pagando più del necessario, presumibilmente premiando imprenditori amici e grandi elettori dei sindaci. Le centrali d’acquisto uniche dovevano debellare i sistemi clientelari locali e ridurre gli sprechi di denaro del contribuente, ma per ora non succederà.
La marcia indietro del governo c’è stata. In teoria l’Autorità anti-corruzione guidata da Raffaele Cantone non avrebbe dovuto concedere i codici per eseguire gli appalti ai comuni che non si fossero adeguati alle maxi-centrali d’acquisto. Ma anche questo divieto è stato congelato.
Non è un segnale positivo per la finanza pubblica. Il pas- saggio da 34 mila a sole 35 centrali pubbliche d’acquisto in Italia dovrebbe far risparmiare almeno il 10% dei circa 130 miliardi che lo Stato ogni anno spende in acquisti di beni o servizi e in appalti. Per certe categorie di merci — arredamento, computer, convenzioni telefoniche — comprare tramite Consip può far risparmiare fino all’85% del costo. Ma soprattutto, la riforma delle centrali d’acquisto era un esame per misurare la capacità del governo di avanzare sulla spending review contro la resistenza dei vari gruppi d’interesse. La legge di Stabilità del prossimo autunno, quanto a questo, prevede tagli di spesa per circa 14 miliardi. E a giudicare dalle prime mosse, non sarà una passeggiata.
Repubblica – 30 luglio 2014