Alessandro Barbera. L’obiettivo è raggiungere quei tre milioni di famiglie, più dei sei milioni di italiani, i quali oggi non hanno abbastanza per sostentarsi. Non c’è Paese in Europa, con l’eccezione della Grecia, con un numero così alto di invisibili. Eppure, fra Comuni e Governo, i fondi non mancano: sette miliardi all’anno, sei dei quali a disposizione dei sindaci. Il piano anti-povertà è sui tavoli di Palazzo Chigi, Tesoro e ministero del lavoro.
Renzi lo vorrebbe pronto per le elezioni di fine maggio, data entro la quale potrebbe essere realizzato almeno un pezzo del progetto. La prima ipotesi – l’allargamento del bonus ai redditi sotto gli ottomila euro – è già virtualmente accantonata: troppo ampia e indistinta la platea di chi ne fa parte, il rischio è spendere molto più degli 1,5 miliardi a disposizione e non raggiungere chi ha davvero bisogno. Così come è molto difficile che il governo riesca in poco tempo a introdurre un vero e proprio reddito di cittadinanza che cambi radicalmente volto al welfare italiano. Oggi il governo lavora attorno a due soluzioni molto mirate: il rafforzamento dell’Asdi, l’assegno di disoccupazione per anziani e genitori con minori e la ristrutturazione dei molti (troppi) sistemi esistenti di contrasto alla povertà, statali e locali.
Rafforzare l’Asdi
La prima soluzione è la più semplice da attuare. Le nuove regole prevedono che ogni lavoratore ha diritto ad un sussidio (Naspi) per due anni dalla perdita del lavoro. Esauriti questi due anni, chi ha minori a carico o ha superato i 55 anni di età può contare a sei mesi di Asdi, il vero e proprio assegno di disoccupazione. Oggi è finanziato per una cifra bassa: 200 milioni di euro. A Palazzo Chigi calcolano che per ogni cento milioni in più dedicati al fondo dell’Asdi si possono sostenere 19mila disoccupati.
Riformare la social card
La seconda ipotesi, che nelle intenzioni di Palazzo Chigi potrebbe essere complementare alla prima, è la riforma di tutti gli strumenti di sostegno alla povertà. A livello nazionale ne esistono due: la social card, introdotta dal governo Berlusconi e tuttora funzionante, e il «Sia» in via di sperimentazione in alcune zone d’Italia. Per l’accesso ad entrambi i programmi occorre presentare il modulo Isee (per intenderci, quello che certifica il livello di ricchezza usato per l’accesso agli asili nido) e – nel caso del Sia – certificare un reddito inferiore ai tre-quattromila euro. La vera assistenza sociale oggi è però in mano ai Comuni, i quali – calcola il governo – spendono per questa finalità sei miliardi di euro l’anno, sei volte più dello Stato. Il ministero del Lavoro vorrebbe mettere tutti questi fondi sotto un solo cappello, o meglio un solo programma che permetta di stabilire regole più omogenee.
Il reddito minimo
Nel cassetto dei sogni di alcuni, anche nel governo, ci sarebbe un reddito minimo non troppo diverso da quello che propone il Movimento Cinque stelle. «Avremmo dovuto ascoltare Milton Friedman molto tempo fa quando proponeva la negative income tax. Oggi siamo troppo indebitati per immaginare qualcosa del genere», dice l’economista Stefano Zamagni. Per l’ex presidente dell’Agenzia per il terzo settore i piani nei quali è coinvolta la burocrazia non servono a nulla contro la povertà endemica, quella di chi si vergogna di chiedere aiuto o non è in grado di compilare un modulo Isee. «Io mi affiderei al terzo settore organizzato: cooperative sociali, Caritas, no profit. Basterebbero una lista di soggetti autorizzati e regole chiare». Le cronache di Mafia Capitale ci dicono però che i controlli sull’uso dei fondi non è così semplice, né efficace fuori del controllo della burocrazia.
La Stampa – 14 aprile 2015