Marco Bresolin. Una premessa è doverosa: il taglio del finanziamento pubblico ai partiti, varato dal governo Letta, è reale e pesante. La riduzione graduale avrà i suoi effetti anche prima del 2017, quando sparirà del tutto (nella forma diretta, resterà solo sotto forma di detrazioni fiscali e due per mille). Detto questo, le campagne elettorali si confermano un bel business. Un investimento (quasi) sicuro che porta – in media – un guadagno netto pari al 20% del capitale investito. Ma potrebbe andare anche molto meglio, a patto che i voti arrivino.
Tutto già pagato
La Corte dei Conti ha concluso l’esame delle spese sostenute dalle 87 formazioni politiche che hanno partecipato alle elezioni del 2013. E il report trasmesso alle Camere non riuscirà certo a ridurre la distanza tra i cittadini e la politica. Due numeri: i partiti hanno speso 45,4 milioni di euro per la campagna elettorale, totalmente finanziati con donazioni private o con fondi già presenti nelle casse del partito. Per dire: avevano a disposizione 46,8 milioni di euro, quindi più di quello che hanno effettivamente speso. Ma dallo Stato riceveranno 54 milioni (in quattro tranche annuali, dal 2013 al 2016). È come se il dipendente di un’azienda, in trasferta per lavoro, raccogliesse 350 euro da amici e parenti per pagarsi le spese. E che, a fronte di una reale spesa di soli 300 euro, ne ricevesse 400 dal suo datore di lavoro. Vi sembra surreale? Il sistema dei «rimborsi» (sì, suona strano ma li chiamano così) elettorali funziona proprio in questo modo. E il datore di lavoro siamo noi. Ma non è tutto, perché ovviamente questi 54 milioni non sono gli unici che i partiti riceveranno da qui al 2016. Questi sono solo per le elezioni Politiche: in totale ne arriveranno 227,5. Meno male che li hanno tagliati, altrimenti sarebbero stati 364.
Chi ci guadagna di più
Ma torniamo alle spese elettorali. Che, va detto, rispetto al 2008 sono più che dimezzate (sette anni fa i costi salirono a 110 milioni). Il fu Pdl è stato certamente quello che nel 2013 ha investito più soldi: 12 milioni di euro. Poco male, visto che i rimborsi gli garantiranno un ritorno di 18,8 milioni. Ma l’investimento più riuscito è quello del Pd: la «non vittoria» è costata 10 milioni e ha ne ha portati nelle casse del Nazareno ben 23. Praticamente anche la prossima campagna elettorale è già pagata. Chi più chi meno, comunque, quasi tutti ci hanno guadagnato: dalla Lega Nord (2,7 milioni spesi, 3,3 incassati) a Sel (860 mila euro spesi, 2 milioni incassati). Fino ai casi più emblematici come la Lista Crocetta (solo 22 mila euro di spesa e 256 mila di rimborso) o il Centro Democratico: la lista di Tabacci ha raccolto 84 mila euro in donazioni da privati e aziende, ne ha spesi 47 mila e si prepara a intascare 200 mila euro di soldi pubblici. Che dire: applausi. Il premio «braccino corto» va però all’Unione sudamericana degli emigrati italiani (Usei): la campagna elettorale è costata zero euro, ne incasseranno 48.748. Dai loro dovrebbe imparare l’Udc: 3,2 milioni spesi, solo 730 mila incassati. Come risaputo, il M5S (470 mila euro spesi) non ha ricevuto rimborsi elettorali. Perché non ne ha fatto richiesta, vero. Ma anche perché non ne ha diritto, non avendo uno statuto «conformato ai principi democratici».
I conti non tornano
Ci sono poi alcune situazioni anomale, registrate dalla Corte dei Conti. La Destra, per esempio, ha speso 800 mila euro pur avendone a disposizione solo 126 mila. Rivoluzione Civile ha un «buco» di 800 mila euro perché non tutti i soci hanno versato la loro quota: il contenzioso è finito in tribunale. Fratelli d’Italia, infine, non ha trasmesso la documentazione dei contributi ricevuti da una cinquantina di aziende. La Corte dei Conti riferirà la mancanza alla procura di Roma. Ma intanto, nelle casse del partito della Meloni, andranno 843 mila euro.
La Stampa – 27 marzo 2015