Comprare il latte e farne formaggio è il loro mestiere. Ma negli ultimi giorni alle aziende di trasformazione conviene rivenderlo subito, senza neanche toccarlo. Perché un po’ come gas e petrolio, anche il liquido bianco ha una sua quotazione di Borsa.
Degli indici che misurano il prezzo degli scambi «spot», condotti ogni giorno tra allevatori e aziende trasformatrici nelle diverse aree d’Italia. E ieri sulla piazza di Lodi, la principale del Nord Italia insieme a Verona, il valore di un litro ha raggiunto i 51 centesimi. Vicino al massimo storico, livelli del genere non si vedevano dal 2007. Una bella occasione per chi sta alla fonte, gli allevatori, che lamentano da anni margini sempre più sottili. Ma solo sulla carta.
A fine luglio infatti Confagricoltura ha firmato il contratto di fornitura annuale con Galbani, come Parmalat entrata nell’orbita del gruppo francese Lactalis. L’acquirente numero uno in Italia, così importante che determina il prezzo per tutti gli altri accordi di lunga durata con i trasformatori. Ebbene, da agosto a gennaio aziende e cooperative si riforniranno dalle stalle a 42 centesimi. E se anziché produrre mozzarelle o Grana Padano, il latte lo rivenderanno tale e quale sul mercato giornaliero, otterranno un margine immediato di 10 centesimi, vicino al 20%.
«Quando l’accordo è stato siglato il prezzo era già a 45 centesimi ed era chiaro sarebbe aumentato ancora», racconta Ettore Prandini, presidente di Coldiretti Lombardia. L’associazione non ha voluto sottoscrivere il contratto con Galbani, anche perché considera l’impennata del latte destinata a durare: «La domanda in crescita nei Paesi emergenti lo terrà a lungo vicino ai 50 centesimi». Di fiammata momentanea parla invece Antonio Piva, vicepresidente di Confagricoltura: da una parte l’estate calda, dall’altra il blocco delle forniture neozelandesi alla Cina, per sospetti casi di botulino. Il Dragone si è dovuto rivolgere all’Europa, così a Francia e Germania, principali produttori continentali, oggi conviene polverizzare il latte e mandarlo a Oriente, piuttosto che, liquido, in Italia. «Ma l’offerta si adeguerà presto alla domanda – assicura Piva – la Nuova Zelanda è ripartita e Paesi come Stati Uniti e Argentina stanno incrementando la produzione».
Per ora però resta quella differenza, di 10 centesimi, tra il prezzo dei contratti annuali e quelli «spot». Uno scambio giornaliero che solo un piccolo numero di allevatori, spesso aziende familiari, riesce a permettersi. Per la maggior parte di loro i contratti annuali sono irrinunciabili, la sicurezza di vendere una certa quantità nei mesi successivi. Decisiva, visto l’aumento dei costi che ha costretto diverse stalle a chiudere e fatto scendere la produzione del 3% nel primo semestre dell’anno. «Certo, oggi chiuderemmo a 1 o 2 centesimi in più – ammette Piva – ma a determinare il prezzo concorrono anche altri fattori, come ad esempio il costo finale del Grana Padano, che a luglio era più basso».
Campo libero allora per il trading dei trasformatori. Che anziché usare il mercato giornaliero come canale di rifornimento, di norma assicura fino al 40% del loro fabbisogno, possono venderci le partite acquistate poco sopra i 40 centesimi al litro. Quanto ai consumatori, Coldiretti afferma che se le quotazioni rimanessero queste gli effetti sugli scaffali si vedrebbero già a settembre. Più che sul costo di un cartone, su quello dei prodotti trasformati: il valore di un chilogrammo di Grana Padano all’ingrosso è già salito a 8 euro. O sulla loro quantità, destinata a scendere. Almeno finché i produttori guadagneranno rivendendo il latte non trasformato.
Ansa – 29 agosto 2013