Dal Corriere del Veneto del 26 e 27 agosto. servizi di Silvia Madiotto. Bisogna partire dai numeri perché è quello il nodo di tutta la vicenda: 178 lavoratori positivi su 560 testati a cui si aggiungono 21 persone positive su 145 familiari e conviventi sottoposti a tampone. All’Aia di Vazzola, sinistra Piave della provincia di Treviso, in uno stabilimento di macellazione e lavorazione animale, c’è il più grosso focolaio di Covid attualmente censito in Veneto. Come sia partito, chi abbia portato il virus all’interno dei magazzini e degli impianti, come sia stato possibile farlo esplodere fino al contagio di quasi un terzo dei dipendenti, è oggetto di un’indagine epidemiologica complessa che forse non riuscirà a dare risposte complete ma che più si allarga più trova infetti. Asintomatici (con eccezione del primo malato da cui è scattato lo screening e altri due colleghi) ma infetti.
Di certo nel novero delle spiegazioni vanno inclusi errori umani e più in generale la sottovalutazione del problema. A partire da un’anomalia delle quarantene: alcuni dipendenti sono andati al lavoro nei giorni intercorsi fra il test e l’esito non rispettando l’isolamento fiduciario e alcuni di loro hanno avuto diagnosi positiva. Questo significa che hanno continuato a svolgere la loro mansione a stretto contatto con altri colleghi dello stabilimento, dotati di ogni dispositivo di protezione individuale ma con l’infezione in corso: «L’Usl 2 ci ha rassicurati che la procedura è normalmente applicata quando viene verificata la bassa viralità, quando ci sono molti asintomatici – evidenzia Andrea Meneghel, segretario Fai Cisl -. Ci lascia un po’ di perplessità, certo, ma l’incontro è stato positivo e ci è stato assicurato che da qui in avanti verranno fatti test con cadenza settimanale fino all’esaurimento dell’infezione».
Alla fine però sono i numeri che parlano, in particolare i 178 lavoratori Covid-positivi (fra la Tre Valli e la Vierre Coop), e questo ha imposto a una delle più grosse industrie alimentari del Paese a tagliare la produzione del 50%, riducendo i turni per favorire il distanziamento. Finché i tamponi non saranno tutti negativi solo metà dei dipendenti entrerà e metà dei prodotti avicoli uscirà, ma lo stabilimento non è destinato a chiudere: non è necessario per i sanitari e non sarebbe sostenibile per l’azienda.
«Mercoledì ricominceremo a fare altri tamponi all’Aia con il test rapido – spiega il dg dell’Usl 2 Francesco Benazzi uscendo dal vertice urgente convocato ieri in Prefettura – ma la garanzia della sicurezza dei lavoratori rimane soprattutto nel rispetto della distanza e nell’uso della mascherina, il virus c’è ma è indebolito ed esterno all’impianto». Scivola invece via il dirigente di Aia Giuliano Allegri, seguito da una folta schiera di collaboratori. Poche parole: «L’azienda opera nel pieno rispetto delle leggi, mettiamo in atto tutte le misure sanitarie e il distanziamento». A domanda diretta: temete un impatto commerciale per il marchio? Risposta secca di Allegri: «Al momento no». Per quanto restrittivi possano essere i protocolli sanitari, c’è un altro elemento da considerare: che fuori da lì cinquecento persone vivono la propria vita e hanno delle relazioni sociali in comunità allargate, dove la mascherina che è obbligatoria in azienda rimane in tasca o sotto il mento; una parte consistente dei positivi è straniera e di origine africana, più reticente alla prevenzione in ambito esterno. È una delle spiegazioni che vengono date dall’Usl per comprendere il maxi focolaio scoppiato a Vazzola.
A pesare anche un ambiente considerato favorevole alla diffusione del virus dal sindacato dei veterinari Sivemp, ovvero con basse temperature, umidità in ambienti comuni e contatto stretto tra i lavoratori e con vapori e materiale organico della lavorazione animale. Cgil, Cisl e Uil hanno chiesto il vertice di ieri per affrontare il caso sotto il profilo della sicurezza e sanità pubblica: per ora non vedono un pericolo occupazionale che rimane fronte da tutelare; hanno ottenuto l’installazione di termoscanner agli ingressi, una più rigorosa sanificazione degli ambienti di lavoro, screening continui. Lunedì l’Usl 2 ha sottoposto a tampone i lavoratori rientrati da due o tre settimane di ferie, quindi assenti durante l’emersione del cluster, e 18 sono risultati positivi ma se non fosse scoppiato il caso, essendo asintomatici nessuno di loro si sarebbe accorto di essere un veicolo di contagio. In vista di un autunno caldo, con il Covid-19 sempre dietro l’angolo, l’Aia è un precedente che diventa caso studio: le aziende sono a rischio contagio quanto ogni altro luogo.
Parla l’azienda
—- Il focolaio all’Aia di Vazzola ora si allarga all’esterno dello stabilimento industriale: familiari e conviventi dei lavoratori risultati positivi al Covid sono stati tamponati e altri 14 sono risultati infetti; fra dipendenti e contatti stretti il cluster arriva a quota 213. Il focolaio all’interno dell’azienda sembra essere ormai contenuto. Ieri il direttore del personale di Aia Giuliano Allegri ha espresso la posizione dell’industria (quarto gruppo alimentare in Italia) sulla vicenda, dopo il dimezzamento dei turni di produzione e il rafforzamento dei protocolli di prevenzione: «Tutte le misure sono state applicate correttamente, lo hanno riconosciuto anche le autorità con cui abbiamo condiviso ogni azione. L’ipotesi dei medici è che alcuni lavoratori siano tornati dalle ferie con postività ma asintomatici, l’episodio va inquadrato nel contesto di quanto sta avvenendo nel Paese. Certo, per noi è pesante ridurre l’attività dello stabilimento, ma prima di ogni cosa viene la salute dei nostri collaboratori». E ora si pensa agli altri impianti Aia: «Sono già attive da tempo misure di precauzione, se ci sarà qualcosa da cambiare o da aggiungere lo faremo».