L’iniziativa potrebbe bloccare l’iter della direttiva fino al termine della presidenza italiana del semestre europeo. Una “frana” estiva rischia di far deragliare – ancora una volta e forse in maniera irreversibile – la direttiva sul “Made in” e il tentativo di portare a casa l’etichetta obbligatoria sui beni prodotti in Ue o importati dai Paesi extracomunitari entro il semestre di presidenza italiano.
Afine luglio, infatti, alcuni Paesi tradizionalmente contrari al “Madein” (tra questi vi sono Germania, Regno Unito e un pool di Stati nordici e scandinavi) avrebbero presentato alla CommissioneUe(precisamentealla Direzionegenerale Industria) una richiestadivalutazionedi impattosucosti e benefici che deriverebbero dall’imposizione su tutti i prodotti europei di un’etichetta che ne identifica origine e provenienza.
Nell’” Invitation to tender”, con riferimento all’articolo 7 della direttiva – e con linguaggio asettico – si richiede infatti di «esaminare i possibili effetti», in particolare «identificando costi e benefici economici (diretti e indiretti) e i possibili aggravi qualitativi, quantitativi e se possibile, in termini monetari, di un’etichetta obbligatoria rispetto all’attuale situazione che la rende facoltativa». Si chiede inoltre di «identificare gli aggravi buricratici ed amministrativi».
In particolare, poi, «lo studio dovrebbe includere analisi costibenefici quantitative sul business e sulle catene del valore, con un occhio particolare alla realtà delle piccolo-medie e micro imprese, anche in termini di competitività». Un’analisi di impatto che non dovrebbe includere interviste sul campo oindagini empiriche, mavalutazioni di «istituzioni indipendenti, letteratura accademica e opinioni provenienti dalle associazioni imprenditoriali dei vari Paesi».
In apparenza, una “innocente” richiesta di valutazioni, che però tradisce lo “stallo” in cui si trova da mesi la proposta di direttiva presentata dagli ex commissari Ue Antonio Tajani e Tonio Borg, approvata a larga e trasversale maggioranza, in prima lettura, dal Parlamento Ue lo scorso 15 aprile con 485 voti favorevoli, 130 contrarie27 astenuti(si vedaIlSole 24 Ore del 16 aprile).
Il Consiglio Ue, infatti, è da sempre spaccato a metà tra chi – capofila l’Italia – assieme alla Francia, la Spagna e all’Europa manifatturiera sconta la concorrenza sleale di Cina e Far East e chi, come i Paesi puramente importatori (il blocco anglo-scandinavo) e la Germania (prima manifattura sì, ma per lo più “assemblatrice” di lavorazioni e componentistica estera) ha sempre opposto il veto.
Una mossa che sembra “tarata” per dilatare ulteriormente i tempi, di quei 6-8 mesi, quanto basta per uscire “indenni” dal semestre di presidenza italiana della Ue e “disinnescare” l’interesse del principale contraente. Con l’obiettivo di archiviare tutta la direttiva proposta dagli ex commissari Antonio Tajani e Tonio Borg per tutelare salute e sicurezza dei consumatori (di cui il “made in” è solo un paragrafo) o almeno “stralciare” il “Made in” obbligatorio, che occupa solo l’articolo 7 e ne paralizza il proseguo dell’iter.
Secondo fonti ministeriali, peraltro, anche nel corso del quadrangolare che il ministro per lo Sviluppo economico, Federica Guidi, ha avuto lo scorso 20 luglio con i colleghi, il francese Arnaud Montebourg, lo spagnolo Josè Manuel Soria e il tedesco Sigmar Gabriel, quest’ultimo si sarebbe detto contrario a ogni ipotesi di accordosuun’etichetta obbligatoria. In realtà, l’obbligo di un’etichetta che identifica il Paese di provenienza di ogni merce che circola in Europa non sarebbe proprio solo un “vezzo” della Ue. Gli stessi Paesi in cui maggiormente esportiamo – Cina, Giappone, Usa e Australia – l’etichetta “made in” ce la impongono se vogliamo vendere loro i nostri prodotti europei. Insomma, se la richiesta di “analisi” verrà accolta, neanche lo stimolo del voto europarlamentare potrà portare a un accordo. Eilsemestredipresidenza italiana – l’unica vera opportunità per portare a casa il “Made in” – potrebbe rivelarsi l’ennesima occasione mancata.
Il sole 24 Ore – 5 agosto 2014