Di Ilaria Capua in questi anni, e ancor di più in questi giorni, è stato scritto di tutto. E senz’altro merita i tanti apprezzamenti che le sono stati rivolti, dall’Italia e dal mondo. A noi, al di là di ogni altra scontata considerazione, è piaciuto il forte senso di appartenenza alla sanità pubblica che la ricercatrice alla guida di una struttura dell’Istituto zooprofilattico sperimentale delle Venezie di Legnaro ha saputo esprimere nel ricevere il Penn Vet Leadership Award a Filadelfia. «Io sono un dipendente pubblico e sono pagata per tutelare la salute degli animali e delle persone, che non sono due cose slegate come si pensa, anzi… » ha detto la Capua.
E parlando del premio ha aggiunto: «Se io, veterinario del Servizio sanitario nazionale, sono stata in grado di accendere un dibattito internazionale, criticando aspramente un sistema poco trasparente che rallentava la ricerca, sono sicura che in altre discipline ci sono colleghi preparatissimi con idee innovative che posso rompere gli argini e far prendere alla ricerca una direzione che ci porti ad essere partner e leader della ricerca che conta» (r.p. – 14 settembre 2011 – riproduzione riservata).
La lady di ferro della scienza che il mondo invidia all’ Italia
«Faccio la veterinaria ma non curo cani e gatti. Sono una scienziata, una scienziata made in Italy». Ilaria Capua, 45 anni, un accento romano che ogni tanto affiora in un inglese perfetto, domani a Filadelfia riceve il Penn Vet Leadership Award, forse il massimo riconoscimento per chi fa il suo lavoro (non solo per i centomila dollari). Negli Stati Uniti la scelta ha fatto un certo scalpore per due motivi: è il primo under 60 ad essere insignita del premio; ed è la prima donna. Ma da un punto di vista italiano, c’ è un aspetto ancora più eclatante. Ilaria Capua non è un cervello in fuga, anzi, ha svolto tutta la sua carriera accademica e scientifica in Italia ed è alla guida di una struttura del vituperato servizio sanitario nazionale: l’ Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, che ha sede a Legnaro, in provincia di Padova. Secondo gli americani la Capua ha «cambiato la pratica e l’ immagine della professione di veterinario». Dramatically, recita la motivazione e in questo caso la traduzione “drammaticamente” può risultare vicina a quel che è accaduto davvero. «Nel 2006 l’ influenza aviaria era appena arrivata in Africa. Quel virus non è una bufala: uccide gli animali nelle prime 48 ore del contagio. Era una emergenza vera. In una situazione di panico generale il nostro laboratorio fu il primo ad isolare il virus, in Nigeria. Ricordo che tutti mi correvano dietro per studiarlo. Naturalmente mi telefonarono dall’ Organizzazione mondiale della Sanità. Mi dissero: se ci dai l’ impronta genetica del virus, depositiamo la sequenza in un database ad accesso limitato per 15 laboratori e ti diamo la password. Ero a un bivio: potevo entrare nel club degli eletti, ma non me la sono sentita. Se quella era davvero pandemia dovevamo lavorare tutti assieme per batterla e ho depositato la sequenza in una banca dati aperta, GenBank. In una settimana è stata scaricata mille volte». Era nata la scienza open-source: la filosofia della rete applicata alla ricerca. Non fu un passaggio indolore. «Si scatenò un casino internazionale», ricorda oggi la Capua. Il Wall Street Journal la definì la “strong lady” della ricerca scientifica, molti si interrogarono sul senso di avere delle banche dati chiuse su temi come la salute e conclusero: non c’ è alcun senso. In breve, la Capua diventa una star, almeno all’ estero dove i suoi cicli di conferenze sembrano il tour di un cantante. Per Scientific American è “uno dei 50 scienziati più importanti del mondo”, il magazine Seed la incorona “mente rivoluzionaria”. Lei minimizza: «Ho fatto solo una cosa logica, di buon senso. Io sono un dipendente pubblico e sono pagata per tutelare la salute degli animali e delle persone, che non sono due cose slegate come si pensa, anzi… Sono convinta che solo attraverso la collaborazione fra scienziati si possano risolvere problemi complessi e per collaborare serve la trasparenza dei dati. Non è più tempo di chiudere i virus nei cassetti e dire: questo me lo guardo io. Certi dogmi vanno superati». Anche da piccola la Capua era così. Sognava di diventare una scienziata, perché aveva il mito di Rita Levi Montalcini, ma visto che voleva andare via di casa, scelse Veterinaria che insegnavano solo a Perugia, così poteva lasciare Roma. «I ragazzi oggi dovrebbero viaggiare di più, imparare l’ inglese alla perfezione, conoscere il mondo. E invece sembra che abbiano paura di muoversi». Questa dimensione internazionale manca anche ai nostri ricercatori: «Ci sono pochi investimenti, è vero, e lo pagheremo come paese, ma invece di lamentarci e arrenderci noi ricercatori dobbiamo vendere le nostre idee all’ estero, trovare partner internazionali. La ricerca non è un parcheggio ma una carriera dinamica, vuol dire alzarsi alle quattro del mattino per un esperimento e girare il mondo in economy facendo delle rinunce. A volte sento delle donne dire: faccio il dottorato così intanto faccio due figli… Sbagliano. Io ho conosciuto mio marito in un aeroporto e ho fatto una figlia a 38 anni…». Dice che l’ Italia ha bisogno di modelli positivi dopo tanti anni di modelle, e spera che la sua storia possa servire a non abbattersi: «Sono partita dieci anni fa con un gruppo di 8 persone, tutti dipendenti pubblici. Ora siamo 70, con noi c’ è un iraniano, una canadese, una messicana e siamo un gruppo leader a livello mondiale». Il senso del suo premio è questo: «Se io, veterinario del Servizio sanitario nazionale, sono stata in grado di accendere un dibattito internazionale, criticando aspramente un sistema poco trasparente che rallentava la ricerca, sono sicura che in altre discipline ci sono colleghi preparatissimi con idee innovative che posso rompere gli argini e far prendere alla ricerca una direzione che ci porti ad essere partner e leader della ricerca che conta». La Capua è fatta così: se piove non dice governo ladro, anche se il governo fosse davvero ladro. «Se piove apro l’ ombrello e vado avanti per la mia strada».
Repubblica.it – 13 settembre 2011