Davide Colombo, il Sole 24 Ore. È probabile che una prima indicazione concreta sulle misure previdenziali che potrebbero entrare in manovra (o in un Ddl collegato) arriverà giovedì, quando i ministri Pier Carlo Padoan e Giuliano Poletti verranno auditi a Montecitorio dalle commissioni riunite Bilancio e Lavoro di Camera e Senato. Oggetto dell’appuntamento è fare un punto sullo stato di utilizzo delle risorse destinate alle misure di salvaguardia degli «esodati». Ma a quanto sembra le intenzioni del Governo sono di uscire dalla teoria delle salvaguardie annuali e dare invece una soluzione strutturale, di impatto il più possibile limitato sul disavanzo. Ieri anche Matteo Renzi ha confermato la linea che il ministro dell’Economia va perorando da settimane: «I conti pensionistici non si toccano – ha detto il premier alla direzione del Pd – non andiamo ad intervenire mettendo la voce più sui costi delle pensioni.
Ma se esiste la possibilità, e stiamo studiando il modo, per cui in cambio di un accordo si può consentire la flessibilità è un gesto di buon senso e buona volontà». Secondo il premier, bisogna lavorare ad una soluzione che «consenta forme di flessibilità in uscita con un piccolo aumento dei costi nell’immediato che poi vengono recuperati» successivamente. Dunque le ipotesi in campo sono tutte da prendere in considerazione fino a che non arriverà il via libera a quella più sostenibile. I paletti fissati sarebbero tre: la dote massima dell’intervento non dovrebbe superare il miliardo (cui va aggiunto il mezzo miliardo già prenotato per la perequazione degli assegni a seguito della sentenza 70/2015 della Consulta), l’anticipo non dovrebbe superare i 3-4 anni rispetto ai requisiti di vecchiaia (66 anni e 7 mesi per gli uomini e 65 e 7 mesi per le lavoratrici dipendenti del settore privato) e infine la penalizzazione non dovrebbe essere inferiore al 3-4% l’anno per ogni anno di anticipo.
Entro questi paletti si trovano le diverse ipotesi di intervento cui stanno lavorando i tecnici. A partire dalla «nuova opzione donna» di cui si parlava ieri in ambienti vicini al dossier: uscita anticipata delle donne dal lavoro dal 2016 a 62-63 anni, quindi con tre anni di anticipo, e con 35 di contributi ma non più con ricalcolo contributivo dell’assegno (che equivale a un taglio del 25% circa) ma con una penalizzazione del 3,3% l’anno per massimo tre anni (con penalty non oltre il 10%). Si eviterebbe così l’innalzamento di 22 mesi previsto a gennaio per le dipendenti private (il requisito di vecchiaia è oggi 63 anni e nove mesi e sale come detto a 65 e 7 mesi). «Sappiamo che c’è un aspetto da risolvere legato a uno scalino alto che blocca il turn over introdotto dalla legge Fornero» ha detto ieri Poletti confermando che le opzioni sono al vaglio «assieme al ministro Padoan».
Pure per i maschi che perdono il lavoro a pochi anni dalla pensione (non più di 3 o 4 anni) si studia la possibilità di una penalizzazione annua almeno del 3-4%, la minima indispensabile per garantire un equilibrio attuariale all’anticipo. Ma in campo resterebbe anche un possibile «prestito pensionistico», un assegno di solidarietà che scatta alla scadenza della Naspi nelle situazioni di maggiore disagio (forse utilizzando l’Isee) per disoccupati senior che poi restituirebbero con piccoli prelievi sulla pensione definitiva a regime.
Si tratta in ogni caso di interventi soft che, se possono garantire un equilibrio nel medio-lungo periodo, necessitano comunque di una copertura di cassa nei primi anni di applicazione. E qui, appunto, sta il nodo tecnico, da risolvere nel quadro delle coperture dell’intera manovra. Certo la pressione politica è fortissima in Parlamento, per non dire del fronte sindacale. Ma la spesa pensionistica non si può toccare con disinvoltura. Come ricorda l’Economia nella Nota al Def, da qui al 2050 la sua minore incidenza potrebbe essere di 60 punti percentuali di Pil. Un risultato cui concorrerebbero per due terzi le riforme varate dal 2004 in poi e per un terzo la sola riforma Fornero. All’andamento di quella spesa Bruxelles guarda periodicamente per verificare se l’Italia rispetta tutte le regole, a partire da quella che prevede un calo duraturo e significativo del debito pubblico.
Le simulazioni. Gli effetti reali sugli assegni delle ipotesi di penalizzazioni
Riduzione di 42 euro al mese per un anno di uscita anticipata
Gianni Trovati. Per trasformare in un’opzione concreta le ipotesi che si stanno moltiplicando sui meccanismi di pensione anticipata bisogna trovare due equilibri: quello del bilancio pubblico e quello dei conti privati dei singoli “prepensionati”. E i due bilanci, com’è ovvio, parlano lingue contrastanti, perché una penalità leggera a carico di chi comincia a ricevere l’assegno previdenziale prima del tempo può costare troppo, mentre un taglio pesante finisce di rendere la scelta appetibile solo quando è obbligata dalla perdita del posto di lavoro.
Dal punto di vista del bilancio privato, i calcoli devono tenere conto anche del versante fiscale, perché una pensione penalizzata darebbe naturalmente un reddito più leggero, quindi meno colpito dalle tasse nazionali e locali. Le tabelle qui sotto propongono i possibili effetti dei tagli applicati a due pensioni che, in caso di uscita senza anticipi, sarebbero di 20mila e 40mila euro lordi all’anno (più di nove pensioni su 10 si fermano sotto questa cifra). Con una penalità del 4% all’anno, un’uscita anticipata di 12 mesi porterebbe a una sforbiciata di 800 euro lordi: al netto delle tasse nazionali, regionali e comunali, però, il sacrificio si fermerebbe a 548 euro, cioè poco più di 42 euro per 13 mensilità. In questo quadro, la pensione netta passerebbe dai 1.272 euro netti dell’assegno in formula piena a 1.230 euro, con un taglio reale del 3,3 per cento.
Le soluzioni applicative su cui stanno lavorando in questi giorni i tecnici del Governo ipotizzano anche anticipi superiori, accompagnati da una progressione dei tagli. Ampliando lo stesso meccanismo descritto finora a un anticipo di quattro anni rispetto al calendario previsto dalle regole attuali, il taglio lordo sarebbe dunque del 16 per cento. Sulla pensione da 20mila euro significa 3.200 euro, che però scendono a 2.192 dopo aver calcolato le ricadute fiscali: si tratterebbe comunque di poco meno di 169 euro al mese (cioè il 13,2% delle somme che si riceverebbero aspettando di raggiungere i requisiti ordinari), una cifra non certo indifferente a questi livelli di reddito.
Nel pacchetto delle regole in discussione c’è poi una riedizione del canale ad hoc per le lavoratrici: la nuova versione dell’«opzione donna» non porterebbe al ricalcolo della pensione in chiave contributiva, ma in pratica riproporrebbe con qualche aggiustamento le penalizzazioni progressive previste per gli altri. Nel caso delle lavoratrici in cerca di uscita si parla di una penalità del 3,33% all’anno, con un anticipo massimo di tre anni. Gli effetti sarebbero di conseguenza un po’ più leggeri, con un taglio effettivo del 2,72% in caso di pensione da 20mila euro lordi.
Al momento, però, la situazione è ancora molto in movimento, dominata com’è dall’incognita degli effetti sui conti pubblici. L’apertura di una via anticipata per la pensione produce infatti una serie di costi non facili da calcolare, e ancor meno da coprire: prima di tutto c’è l’assegno che viene riconosciuto negli anni che precedono il raggiungimento dei requisiti ordinari, e poi ci sono i mancati contributi che il lavoratore ovviamente non versa più. Nel primo caso riportato dalle tabelle, quello con il reddito più leggero, far partire la pensione con un anno di anticipo costerebbe ai conti pubblici 25.420 euro pro capite:?con una penalizzazione effettiva da 548 euro ci vorrebbero 46 anni a pareggiare i conti, senza calcolare la perdita di gettito fiscale perché una pensione tagliata produce meno tasse.
Il Sole 24 Ore – 22 settembre 2015