Dopo otto ore di trattative a Palazzo Vidoni, sede della Funzione pubblica, arriva poco prima dei Tg delle 20 la firma di governo e sindacati confederali in calce all’accordo politico che fa ripartire la macchina della contrattazione per i dipendenti pubblici. Due i nodi che hanno accompagnato la lunga giornata di confronto fra il ministro della Pa Marianna Madia e i leader di Cgil, Cisl e Uil, rispettivamente Susanna Camusso, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo: l’aumento di 85 euro a regime – che si confermano «medi» come indicato nei giorni scorsi dal governo e non «minimi» come chiedeva il sindacato – e l’incrocio con il bonus da 80 euro. Una parte dei 7-800mila dipendenti interessati dal bonus, infatti, con gli aumenti contrattuali rischierebbero di uscire dalla fascia di reddito che dà diritto a percepire il bonus – 200mila secondo le stime del governo, in particolare nella scuola – vedendosi di conseguenza annullare il beneficio del rinnovo. Il testo
L’intesa impegna il governo a una «verifica sugli effetti» dell’incrocio – durante le trattative che si apriranno all’Aran dopo l’atto di indirizzo della Funzione pubblica – per «evitare penalizzazioni indirette». Gli aumenti, si legge nell’accordo, saranno «non inferiori a 85 euro medi», il ministro Madia, ha insistito molto «sull’aggettivo medio», ed ha aggiunto: «ci sarà maggiore sostegno a chi ha sofferto di più la crisi, non è detto che gli aumenti saranno uguali per tutti».
Sul tavolo, in realtà, c’era anche una terza incognita, risolta però nelle prime ore della trattativa. Riguardava l’inserimento della scuola, chiesto e ottenuto dai sindacati, tra i settori interessati dalla revisione delle regole sui «premi», che secondo il disegno governativo concordato con i sindacati dovrà tornare al centro delle materie contrattuali, lasciando alla legge solo i principi-guida. Nel merito, «il governo si impegna rivedere gli ambiti di competenza, rispettivamente della legge e della contrattazione, privilegiando la fonte contrattuale quale luogo naturale per la disciplina del rapporto di lavoro, dei diritti, delle garanzie dei lavoratori nonché degli aspetti organizzativi». La marcia indietro rispetto alla riforma Brunetta del 2009, che aveva invece «legificato» una serie di materie contrattuali, non poteva essere più netto. Nella contrattazione entra anche il periodo di tempo nel quale le trattative non danno frutto prima che le Pa possano ricorrere all’«atto unilaterale», che potrà scattare solo se lo stallo determina «pregiudizio economico all’azione amministrativa». C’è un impegno a migliorare la qualità dei servizi con indicatori da individuare con cadenza periodica per misurare l’efficacia delle prestazioni. E, sulla scia di quanto fatto nel privato dai metalmeccanici, il governo si impegna a sostenere la «graduale introduzione nel pubblico di forme di welfare contrattuale con misure che «integrano e implementano le prestazioni pubbliche», di fiscalità di vantaggio e del salario legato alla produttività e a sostenere lo sviluppo della previdenza complementare.
Soddisfatti i sindacati per l’accordo, dopo 7 anni di blocco dei contratti: «Abbiamo fatto un buon lavoro – ha commentato Camusso – che rende possibile riaprire la stagione per i rinnovi contrattuali nel pubblico impiego. Il governo si è anche impegnato a prorogare i contratti in scadenza per i precari». Furlan parla di «svolta per la Pa» sottolineando le «buste paga più pesanti e più qualità per il lavoro e i servizi pubblici», per Barbagallo «è stato faticoso, ma il Governo ha cambiato rotta, eravamo partiti da 300 milioni, siamo arrivati a 5 miliardi» in totale nel triennio 2016-2018.
Un accordo da 5 miliardi di euro per 2,8 milioni di dipendenti. Per garantire l’aumento medio servono 2,5 miliardi all’anno
L’accordo siglato ieri da governo e sindacati sul rinnovo dei contratti nel pubblico impiego vale «quasi 5 miliardi in tre anni», come spiegato dalla ministra della Pa Marianna Madia in conferenza stampa. Va detto subito, però, che non tutte queste risorse sono aggiuntive rispetto a quelle già decise nelle ultime due manovre, e che lo sforzo in più serve soprattutto sul 2018: precisazione importante, che aumenta le chance di attuazione in un contesto che comunque rimane non semplice perché la manovra del prossimo anno ha già in programma anche le riduzioni Irpef e la correzione del saldo strutturale promessa all’Europa. In attesa ci sono gli 1,7 milioni di dipendenti della Pa centrale, ma anche le 472mila persone che lavorano in Regioni ed enti locali e le 664mila impegnate nella sanità.
Ma per non perdersi nel caleidoscopio delle cifre occorre andare con ordine. La trama parte dai 300 milioni all’anno messi a disposizione dalla legge di stabilità 2016 ma mai utilizzati, e continua con gli 1,48 miliardi scritti nella legge di bilancio che ora attende l’esame del Senato. In quest’ultima cifra, però, non tutto è destinato alla contrattazione, perché al netto della quota riservata al bonus da 80 euro per militari e forze dell’ordine e delle risorse (poche nel primo anno) per le nuove assunzioni si scende sotto al miliardo lordo. Aggiunto ai 300 milioni citati prima, quindi, si arriva intorno a quota 1,2-1,3 miliardi.
Ma quanto serve per arrivare a garantire gli 85 euro medi a regime, entro la fine del triennio contrattuale 2016-2018 confermato dall’accordo? I calcoli sono in corso, ma la linea arriva intorno ai 2,5 miliardi all’anno: la strada ancora da compiere, nel 2018, vale quindi altri 1,2-1,3 miliardi.
L’obiettivo è appunto quello di arrivare a un aumento a regime da 85 euro. Il dibattito sulla somma «minima», chiesta dai sindacati, o «media», indicata dal governo si è concluso a favore di quest’ultima soluzione, anche se la formulazione che è riuscita a mettere d’accordo tutti è un po’ bizantina. Il Governo, si legge nel testo firmato, «garantisce» stanziamenti aggiuntivi per «definire incrementi contrattuali in linea a quelli riconosciuti mediamente dal privato», e fin qui tutto bene, «e comunque non inferiori a 85 euro mensili medi». «Non inferiori» come chiedevano i sindacati, quindi, ma solo in termini «medi» come imposto dal governo.
Dentro questa media, quindi, qualcuno otterrà di più e altri di meno. In che modo? L’idea è quella della «piramide rovesciata», cioè, per dirla con il linguaggio dell’intesa, quella di «valorizzare prioritariamente i livelli retributivi che più hanno sofferto la crisi economica e il blocco della contrattazione» (come anticipato sul Sole 24 Ore di martedì). La traduzione, spiega il sottosegretario alla Pa e alla semplificazione, Angelo Rughetti, punta a «un cambio di paradigma rispetto al passato quando chi guadagnava di più prendeva di più».
Toccherà ai contratti trasformare in numeri questo principio, con un meccanismo che dovrà fare i conti con la seconda incognita: quella del bonus da 80 euro. A riceverlo sono oggi 7-800mila dipendenti pubblici, e gli aumenti contrattuali potrebbero portare circa 200mila di loro a perdere il diritto al bonus. Per questa ragione governo e sindacati si sono impegnati nell’accordo a «verificare» ed «evitare eventuali penalizzazioni indirette» prodotte dalla decadenza del bonus per l’effetto-aumenti. Secondo le prime stime ministeriali la questione può essere risolta con circa 140 milioni di euro, ma fonti sindacali indicano già cifre più che doppie: la «verifica» da effettuare ai tavoli della contrattazione, quindi, non si annuncia un passaggio banale.
Ma scritto l’accordo politico, quando partirà la contrattazione vera? Per avviarla serve l’atto di indirizzo, cioè le linee guida che la Funzione pubblica invia ai tavoli sui quattro comparti (Pa centrale, scuola-università, sanità e regioni e autonomie locali) che vedranno animarsi le trattative all’Aran, l’agenzia che rappresenta la Pa come datore di lavoro. Ancor prima dell’atto di indirizzo, però, occorre avviare il confronto con Regioni ed enti locali, che oltre a coprire una parte importante dei contratti da rinnovare (1,2 milioni di persone, sanità compresa) sono chiamate a dare l’«intesa» sul testo unico del pubblico impiego, dove sarà disciplinata la parte normativa dell’accordo di ieri.
Il Sole 24 Ore – 1 dicembre 2016