Jobs act, le tre strade per calcolare l’indennizzo del licenziamento. La riforma del lavoro e le prime simulazioni
Uno stipendio e mezzo per ogni anno di lavoro. E un tetto massimo pari a due anni di retribuzione. Sarà questa la regola base per calcolare gli indennizzi dei licenziamenti che riguarderanno i nuovi assunti, e cioè i giovani al primo contratto ma anche chi adesso lavora e cambierà azienda. Sono però tre le variazioni sul tema previste dal primo decreto attuativo del Jobs act , la legge delega approvata due giorni fa dal Parlamento, che potrebbe arrivare in Consiglio dei ministri già la prossima settimana.
Per i licenziamenti economici, quelli legati al cattivo andamento dell’azienda, non sarà più possibile il reintegro nel posto di lavoro, che oggi il giudice può disporre se le motivazioni sono «manifestamente insussistenti». Si applicherà l’indennizzo base che abbiamo visto prima: uno stipendio e mezzo per anno di lavoro con un tetto di 24 mensilità. E riguarderà i licenziamenti non solo individuali ma anche collettivi. Il reintegro, dunque, sparirà anche se saranno violate le procedure di consultazione con i sindacati e i criteri per scegliere chi mandare via, come i carichi di famiglia. Anche in questo caso, però, le nuove regole si applicano solo ai nuovi assunti mentre per i vecchi il reintegro resterà possibile.
L’opzione maxi
Sui licenziamenti disciplinari, che dipendono dal comportamento del lavoratore, il decreto attuativo definirà le «specifiche fattispecie» che possono portare al reintegro. L’idea era di ridurre questa possibilità a un solo caso, quando l’azienda accusa il lavoratore di un reato grave che poi si rivela falso.
Il paradosso
Ma ci si è accorti che il meccanismo potrebbe avere un effetto paradossale: all’interno delle aziende nessuno denuncerebbe più un reato da collegare ad un licenziamento, proprio perché ci sarebbe il rischio reintegro. Per questo la formula finale sarà più soft: il reintegro può avvenire in caso di insussistenza non del reato ma del fatto materiale che viene contestato al lavoratore licenziato. E forse — sul punto ci sono ancora dubbi — solo se l’azienda era a conoscenza della sua insussistenza. Una formula complessa che potrebbe di fatto allargare i paletti del reintegro. Per questo si rafforza parecchio l’ipotesi dell’opzione aziendale, utilizzata in Spagna e Germania.
La scelta
Cosa vuol dire? Anche quando il giudice dispone il reintegro, l’azienda può decidere di non riassumere il lavoratore ma di pagare un maxi indennizzo. Per calcolarlo, la formula di partenza è sempre la stessa: un mese e mezzo di stipendio per ogni anno di servizio. Ma c’è un minimo: 6 mesi di stipendio anche se il dipendente è stato appena assunto. E un tetto massimo più alto rispetto a quello base: 30 mensilità, forse 36. Oltre all’indennizzo maxi c’è quello mini, in caso di conciliazione fra azienda e lavoratore. Le parti trovano un accordo entro 30 giorni ma con lo «sconto»: per ogni anno di lavoro si calcola solo uno stipendio. Anche il tetto massimo è più basso: 18 mensilità.
Nel decreto ci sarà anche il contratto di ricollocazione. Prevede che il lavoratore licenziato possa rivolgersi ad un’agenzia privata accreditata, che viene pagata solo se il disoccupato ha ottenuto un contratto. E con una cifra proporzionale alla difficoltà del ricollocamento. L’azienda che l’ha licenziato potrebbe avere l’obbligo di coprire una parte delle spese. Una sorta di indennizzo «costruttivo».
Lorenzo Salvia – Corriere della Sera – 5 dicembre 2014