Lorenzo Bini Smaghi. Passato qualche giorno dalla pubblicazione dei dati sul Prodotto lordo del secondo trimestre, si può cercare di ragionare a freddo sulle azioni da intraprendere, anche in vista delle prossime scadenze autunnali.
È inutile girarci intorno. Il dato — una crescita del Pil dello 0,2%, dopo lo 0,3% del primo trimestre — è deludente, forse addirittura preoccupante. Se è vero che non c’è più il segno meno (era anche ora dopo 3 anni di recessione), l’intensità della crescita appare del tutto insufficiente, in particolare se si considera il contesto:
1. Il ritmo di crescita tendenziale (0,5% rispetto al 2° trimestre dello scorso anno) è meno della metà della media degli altri Paesi europei (1,2%), e non solo i principali come la Germania (1,6%) e la Francia (1%), ma anche quelli periferici come la Spagna (3,1%) o il Portogallo (1,6%).
2. L’Italia è peraltro il Paese che dopo la Grecia ha registrato il calo più forte di reddito dall’inizio della crisi, con una contrazione del reddito pro capite di circa il 10% rispetto al 2007, e dovrebbe dunque rimbalzare a un ritmo maggiore per recuperare il terreno perduto.
3. Il contesto finanziario internazionale dell’ultimo anno è senza precedenti, con un deprezzamento dell’euro nei confronto del dollaro di circa 20 punti, una forte riduzione dei tassi d’interesse in seguito alla politica del Quantitative easing della Bce, e il dimezzamento del prezzo del petrolio. Difficilmente condizioni così espansive potranno durare ancora a lungo.
4. La politica di bilancio italiana non è più restrittiva: al netto dei fattori ciclici, l’attivo primario italiano si è ridotto dal 4,2% del Pil nel 2013 al 3,9% nel 2014 ed è stimato dalla Commissione europea al 3,6% quest’anno.
Per l’ennesimo anno, le previsioni di crescita dell’economia italiana rischiano di rivelarsi eccessivamente ottimistiche. Per rispettare la stima di un incremento medio dello 0,7% il reddito dovrebbe infatti crescere in media tra lo 0,3% e lo 0,4% sia nel 3° sia nel 4° trimestre, il che appare molto difficile.
È inutile nasconderlo. Qualcosa non funziona più come previsto nel sistema economico italiano. Il problema non riguarda solo il periodo post crisi ma l’ultimo ventennio, con il progressivo affievolimento della dinamica produttiva. Il sistema non sembra più in grado di reagire come in passato, in particolare agli impulsi di politica macroeconomica. Le misure anticicliche tradizionali, come la riduzione delle tasse o l’aumento della spesa pubblica, non producono gli effetti moltiplicativi attesi sui consumi e sugli investimenti, tali da generare una crescita sostenibile.
L’origine di questi problemi è nota, anche se l’impatto non è facilmente quantificabile. Innanzitutto, il livello elevato del debito pubblico italiano e il continuo rinvio della sua stabilizzazione nel tempo creano incertezza e inducono chi dovrebbe beneficiare di riduzioni fiscali ad aumentare i risparmi, piuttosto che i consumi, nel timore che i tagli siano temporanei e che — come è spesso avvenuto — vengano prima o poi compensati con altre tasse. Un altro problema nasce dal divario di competitività accumulato in passato, che — contrariamente a quanto avvenuto negli altri Paesi periferici dell’euro — non si è ridotto negli anni recenti, né con aumenti di produttività né con contenimento dei costi. Continua inoltre a rimanere opprimente il peso delle sofferenze bancarie che scoraggia l’erogazione di nuovo credito, soprattutto alle piccole e medie imprese.
Rimangono soffocanti le rigidità sui vari mercati, che ostacolano la creazione di nuove imprese e di posti di lavoro. Per non parlare della corruzione e della malavita organizzata che opprimono una parte rilevante del Paese.
Ricordare questi problemi — peraltro noti — non deve scoraggiare. Le riforme avviate nei mesi scorsi, e quelle annunciate, che mirano a rendere il sistema economico italiano più reattivo vanno, in larga parte, nella direzione giusta. Tuttavia, il messaggio che viene dai dati oggettivi più recenti è che l’effetto di queste riforme rischia di essere troppo lento, troppo graduale e parcellizzato, per poter dare un segnale sufficientemente forte di inversione di tendenza. È necessaria un’accelerazione, con un rafforzamento dell’intensità e dell’efficacia delle riforme, che devono concentrarsi sui problemi enunciati sopra, com’era nell’intento iniziale.
Senza una tale accelerazione, le politiche di stimolo della domanda, come il taglio della pressione fiscale, rischiano di risultare non solo poco efficaci ma anche difficilmente difendibili sul piano della flessibilità delle regole europee di bilancio concordata meno di un anno fa.
Il Corriere della Sera – 21 agosto 2015