Per fortuna del mercato del lavoro italiano il tweet del premier Matteo Renzi pubblicato il 20 febbraio scorso non è da intendersi letteralmente. Il primo ministro ha dichiarato entusiasta: «Oggi è il giorno atteso da anni. Il #JobsAct rottama i cococo cocopro vari». Non è così.
L’articolo 47 dell’attesissimo schema di decreto legislativo recante il testo organico delle tipologie contrattuali, infatti, salva dalla furia iconoclasta contro le collaborazioni a progetto i rapporti regolati da accordi collettivi che prevedano «discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore».
In altri termini, se da una parte è vero che dal 1? gennaio 2016 non sarà più possibile lavorare a progetto in settori sprovvisti di specifica disciplina, è altrettanto vero che nulla succederà laddove vi sono accordi tra le parti sociali, ovvero proprio in quei settori che più utilizzano le collaborazioni a progetto.
Tradotto in cifre: meno della metà dei circa 505.000 cocopro. presenti nel nostro Paese cesserà a fine anno. Gli altri potranno continuare a lavorare come collaboratori a progetto, con buona pace di tutta la retorica sulla precarietà.
La collaborazione a progetto non è l’unica tipologia contrattuale che si è salvata dalla promessa sforbiciata annunciata nelle scorse settimane: esce indenne dalla redazione del testo organico anche il lavoro intermittente, mentre sono ampliati gli spazi del lavoro accessorio.
Chi «non ce l’ha fatta», quindi? Le tipologie contrattuali integralmente abrogate sono l’associazione in partecipazione e il job sharing, in totale circa 42.000 contratti vigenti. Se a questi si sommano le 250.000 mila collaborazioni a progetto di cui sopra, si possono contare circa 300mila contratti che dovranno essere diversamente regolati. Considerato che gli occupati sono circa 22 milioni, si capisce che l’intervento, per quanto convinto ed entusiasticamente annunciato, è piuttosto marginale. Tanto più che è probabile che buona parte di questi 300mila «orfani di disciplina normativa» non si tramuti in contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti, come vorrebbe il governo, bensì in partite Iva. Sperando che addirittura non sparisca nel nero.
Quindi un fallimento? No, paradossalmente questa scelta conservativa in termini di flessibilità in entrata è azzeccata rispetto al fine dichiarato del Jobs Act, ovvero la facilitazione di maggiore occupazione, preferibilmente a tempo indeterminato. Un intervento più drastico avrebbe voluto dire, quantomeno nel breve termine, più disoccupati. Il governo si è accorto che questa particolare categoria di lavoratori, meglio noti come «precari», non è composta solo di vittime dell’opportunismo datoriale, moderni schiavi della logica del profitto e del risparmio su tutto, compreso il costo del lavoro. Certo, molti contratti a progetto e ancor più partite Iva non sono genuini, nascondono effettivamente un abuso, che come tale dovrà essere sempre meglio contrastato. Ciò non toglie, però, che la maggioranza di questi rapporti di lavoro sia regolarmente stipulata, senza alcuna furbizia, col solo fine di leggere e normare particolari (ma sempre più numerose) situazioni del mercato del lavoro. In particolare i mestieri più moderni, sempre meno inquadrabili nella tradizionale nozione di subordinazione. Pensare diversamente vuole dire credere che in Italia vi siano 500mila abusi travestiti da contratti a progetto e addirittura 5.500.000 furbetti della partita Iva. È evidente che non è così e in forza della (silenziosa) coscienza di questa evidenza il governo ha proceduto per un equilibrato sfoltimento delle collaborazioni, pur descrivendo l’intervento con grossolana e generosa sintesi.
Libero – 27 febbraio 2015