Per una strana abitudine italiana, è possibile che nove giorni dopo l’approvazione di un decreto del Consiglio dei ministri il suo testo sia ancora sconosciuto al pubblico. Questi ritardi del resto sono così frequenti che ormai vengono considerati perfettamente normali: tutti sanno che una certa riforma è avvenuta, pochissimi privilegiati ne conoscono il contenuto, e nessuno se ne sorprende. È il caso, fra gli altri, del cosiddetto «Testo unico sui servizi pubblici locali di interesse economico generale».
Quello è uno degli undici decreti attuativi approvati il 21 gennaio scorso, dopo la legge con cui il parlamento aveva delegato il governo a modernizzare la pubblica amministrazione. Almeno sulla carta, doveva essere uno dei passaggi più innovativi dell’intera riforma. C’era un obiettivo dichiarato: aprire alla concorrenza i mille piccoli (o non tanto piccoli) regimi locali di monopolio nella fornitura di servizi come la gestione dei rifiuti, l’acqua, o i trasporti pubblici. Quanto a questo, la legge-delega uscita in Gazzetta Ufficiale all’inizio dell’agosto scorso ha parole inequivocabili: all’articolo 19 dà mandato al governo di procedere alla «soppressione, previa ricognizione, dei regimi di esclusiva, comunque denominati, non conformi ai principi generali in materia di concorrenza e comunque non indispensabili per assicurare la qualità e l’efficienza del servizio».
In altri termini, doveva finire la lunghissima epoca dei concessionari monopolisti: un solo gestore dei rifiuti per città, per esempio, o un solo fornitore di servizi idrici. Vincere una gara bandita da un ente locale fino ad oggi è equivalso alla conquista di un’esclusiva su un’attività per un gran numero di anni. La riforma in teoria doveva spostare questo equilibrio: in teoria altre aziende – accanto all’attuale monopolista controllato o partecipato dall’ente locale – avrebbero potuto gestire lo smaltimento dei rifiuti in altri quadranti di Roma o di Milano, per esempio. Il cuore della riforma sui servizi pubblici locali era qui.
Se questa era l’intenzione, e la delega al governo, a quanto pare qualcosa non ha funzionato. Ufficialmente non è dato sapere, proprio perché a nove giorni dall’approvazione del governo i testi dei decreti non sono ancora stati trasmessi al parlamento. Eppure quel «testo unico» sui servizi pubblici locali sembra essere uscito dal Consiglio dei ministri di giovedì della scorsa settimana amputato dei suoi passaggi fondamentali.
In particolare sarebbe saltato quasi tutto l’articolo sette, quello che riduceva drasticamente i «diritti di esclusiva» delle società municipalizzate sulle grandi città. Sarebbe saltato per esempio il comma 2 (a), dove si stabiliva che «il regime di privativa (…) cessa in ogni caso alla data del 31 dicembre 2016». Cancellato a quanto pare anche l’articolo 4, almeno nella sostanza. Nella versione originaria, limitava esplicitamente i monopoli: «La conservazione o il rinnovo di diritti speciali o esclusivi sono consentiti solo ove risulti necessaria alla missione di interesse generale affidata», si legge nella bozza del decreto di due settimane fa. In altri termini, l’ente locale doveva aprire alla concorrenza se non poteva dimostrare che avere due o più aziende di gestione dei rifiuti, erogazione dell’acqua o del gas avrebbe provocato dei problemi per i cittadini.
Niente del genere succederà, malgrado tutto. Su questo punto la legge-delega sarebbe stata disattesa in pieno dal governo (che peraltro ha il diritto costituzionale di agire così). Centinaia di società municipalizzate possono festeggiare in silenzio lo scampato pericolo di una riforma caduta sul suo ultimo metro. Resta solo da chiedersi come sia stato possibile. Di certo le pressioni delle aziende monopoliste, legittime, non saranno mancate; e non è difficile immaginare che si sia fatta sentire anche Utilitalia, la loro associazione guidata da rappresentanti della milanese A2A, della bolognese Herambiente o della romana Acea. In vista delle amministrative di giugno in molte città, la loro voce non dev’essere rimasta senza eco nelle stanze di Palazzo Chigi.
Federico Fubini – Il Corriere della Sera – 30 gennaio 2016