L’interminabile cantiere delle pensioni si è riaperto con l’impegno del Governo a studiare provvedimenti che garantiscano maggiore «flessibilità in uscita». Restano invece ignorati i difetti del sistema contributivo, ormai esteso alla generalità dei lavoratori. Uno dei più gravi riguarda i coefficienti di trasformazione.
Gli effetti delle riforme
La riforma Dini riservò il calcolo pienamente contributivo a chi avesse cominciato a contribuire dopo il 1995. La prima “coorte” ad averlo fatto al completo è quella nata nel 1982 che ha ultimato la scuola dell’obbligo nel 1996.
In base alle regole successivamente introdotte dalla riforma Fornero, i nati nel 1982 andranno in pensione alla spicciolata, nei 18 anni che vanno dal 2042 al 2059. Il nastro di partenza sarà tagliato dalle donne avviate al lavoro nel 1996, che all’età di 60 anni “agganceranno” il requisito contributivo per l’accesso alla pensione di anzianità (cambiata nel nome ma non nella sostanza) prevedibilmente salito poco oltre 46 anni (da 41 e 10 mesi nel 2016). Nel 2043 partiranno le pensioni d’anzianità maschili, mentre quelle di vecchiaia anticipate non potranno farlo prima del 2050, quando parte della coorte aggancerà il necessario requisito anagrafico, salito oltre 68 anni (da 63 e 7 mesi nel 2016). Infine, le pensioni di vecchiaia ordinarie partiranno nel 2054, quando parte della coorte aggancerà il relativo requisito anagrafico, salito oltre 72 anni (da 66 e 7 mesi nel 2016). Gli ultimi andranno in pensione nel 2059 al compimento dell’età pensionabile massima, salita a quasi 77 anni (da 70 e 7 mesi nel 2016). Benché interessanti, i dati previsionali non devono distrarre dalla questione, affatto diversa, che intendo sollevare.
Coefficienti e iniquità
L’argomento è complesso e merita perciò qualche semplificazione che il lettore esperto saprà riconoscere. Fra il 2042 e il 2059 i coefficienti di trasformazione saranno aggiornati nove volte a cadenza biennale. Ogni volta, i nuovi saranno basati su longevità maggiori. Gli aggiornamenti riguarderanno anche i nati nel 1982, ai quali saranno quindi imputate nove diverse longevità. Si considerino Tizia e Caia, entrambe nate nel 1982, la prima delle quali andrà in pensione nel 2042 (a 60 anni) e la seconda nel 2059 (a 77 anni). Il coefficiente di Tizia (usato per calcolarne la pensione) sarà basato su una longevità di 90 anni e quello di Caia su una di 92 anni. Il secondo sarà superiore al primo in ragione della maggiore età (77 anni contro 60) ma non quanto dovrebbe se basato sulla stessa longevità (90 anni). Ancor più iniquo è il caso di Sempronia e Mevia che andranno in pensione alla stessa età: la prima nell’ultimo giorno di un biennio e la seconda nel primo giorno del biennio successivo. Eppure Mevia dovrà subire un coefficiente inferiore.
Tutto ciò non ha alcun senso perché la longevità dipende dall’anno di nascita e non da quello del pensionamento. L’errore logico genera disparità di trattamento, con l’aggravante che è “peggio trattato” (subisce l’imputazione di longevità superiori) chi, virtuosamente, va in pensione dopo. Senza contare che l’instabilità dei coefficienti impedisce i calcoli di convenienza su cui programmare l’uscita dal lavoro. In tali condizioni, è probabile che prevalga l’incentivo a uscire appena possibile.
L’anomalia italiana
Il meccanismo italiano è un’anomalia senza riscontro nei Paesi che hanno fatto la scelta contributiva. In particolare, Svezia e Norvegia adottano il seguente protocollo:
i coefficienti sono aggiornati ogni anno sulla base dell’ultima tavola di sopravvivenza disponibile;
i nuovi coefficienti sono assegnati alla (sola) coorte che può maturare il diritto alla pensione dall’anno dopo;
l’assegnazione è a titolo definitivo, nel senso che l’aggiornamento seguente non potrà essere “retroattivo”, cioè dovrà esclusivamente riguardare la coorte successiva.
Il protocollo scandinavo ha un costo finché i coefficienti sono backward looking, cioè basati sulla “longevità osservata” di coorti che precedono quella cui sono destinati. Per evitare l’obsolescenza, occorrerebbero coefficienti forward looking, cioè basati sulla “longevità prevista” della coorte assegnataria. Ma l’opinabilità delle previsioni, benché scientificamente fondate, ne ostacola l’adozione.
In Italia, il costo dei coefficienti backward sarebbe più elevato per colpa della pensione d’anzianità che, arretrando l’età a cui è possibile andare in pensione, impone l’assegnazione precoce di coefficienti ancor più obsoleti. Ad esempio, impone che, ai nati nel 1971, i coefficienti siano assegnati (per le età da 58 anni in poi) alla vigilia del 2029 in cui saranno liquidate le prime pensione d’anzianità. In assenza di queste ultime, basterebbe assegnarli (per le età da 67 anni in poi) alla vigilia del 2038 in cui saranno liquidate le prime pensioni di vecchiaia anticipate.
Del resto, la pensione d’anzianità è un istituto esclusivamente italiano, che premia i lavoratori già beneficiati dal privilegio di carriere “regolari”. Dietro anzianità contributive più brevi, possono nascondersi attività lavorative ugualmente lunghe ma svolte in condizioni meno fortunate.
A gennaio, i coefficienti saranno nuovamente aggiornati alla vecchia maniera. Si persevera quindi in un errore che genera disparità e disincentiva chi vuole lavorare più a lungo. Per questi (e altri) motivi, dopo vent’anni il sistema contributivo italiano resta in bozze.
Sandro Gronchi, Università di Roma La Sapienza – Il Sole 24 Ore – 14 dicembre 2015