Daniela Minerva. È stato l’esperimento di universalismo sanitario meglio riuscito al mondo. Ma non ce la fa più. Colpa delle strette di bilancio, dell’invecchiamento della popolazione, dei costi delle nuove tecnologie, persino dei cambiamenti in seno alla struttura delle famiglie. Il fatto è che il Ssn non è più sostenibile. Metà delle regioni non garantisce i livelli essenziali d’assistenza. E persino nelle regioni virtuose, il Ssn resta il posto migliore dove andare ma le liste sono così lunghe che, chi ne ha i mezzi, si assicura per poterle bypassare con l’intramoenia.
Questa non è una materia nella quale si può indulgere nella demagogia perché ne va della vita della gente. Di dichiarazione in dichiarazione, tutti a giurare che nessuno metterà mai in discussione l’universalità del Ssn, siamo finiti con milioni di italiani senza cure perché troppo poveri e/o perché vivono in regioni dissolute. Il rischio è, come sta accadendo, di scivolare in un sistema molto iniquo, con i benestanti che si pagano le assicurazioni e i “non” che affollano le liste d’attesa con ritardi anche fatali, quando non rinunciano. Meglio iniziare un percorso di riforme. Che tenga il timone sull’equità.
Chi non si rassegna sostiene che basta eliminare gli sprechi. Non è così. Siamo il Paese che spende meno in Europa per la salute dei suoi cittadini (in percentuale rispetto al Pil) e il fatto che l’assicurazione sembri ormai l’unica strada sicura anche nelle regioni virtuose, dal Veneto all’Emilia- Romagna, indica chiaramente che è proprio la natura profonda del Ssn a non reggere più. Per salvarlo si sono indicate a più riprese le stesse parole d’ordine da oltre 20 anni: appropriatezza delle prescrizioni, più forza ai presidi sanitari vicini al cittadino (i medici di base H24, l’assistenza domiciliare) e i costi standard. Nel primo caso, siamo ancora lontani dai minimi e lo stesso ministro Lorenzin che ha varato un decreto per limitare gli accertamenti diagnostici solo a quelli utili, sta facendo marcia indietro per palese inapplicabilità dello stesso; il fatto è che piuttosto che rinunciare i cittadini se li pagano da soli mentre i meno abbienti affogano nelle liste d’attesa. Per il resto, due Italie: quella in cui non funzionano né l’assistenza territoriale né i costi standard e quella che funziona, dove comunque crescono assicurazioni e spesa cosiddetta out of the pocket. Dunque?
Gli addetti ai lavori discutono da anni, la bibliografia è molto ricca. 37 paesi hanno avviato riforme sanitarie per contrastare i trend economici e demografici. E alcuni paesi europei hanno adottato forme di integrazione. Ma proprio in questa scelta si combatte la battaglia dell’equità. Due esempi possono dare il senso del dilemma da sciogliere al quale la politica volta decisamente le spalle mentre solo una riflessione collettiva potrebbe indicare la strada da seguire. In Olanda, l’assicurazione è obbligatoria e in massima parte coperta dallo Stato o dal datore di lavoro. In Francia c’è un sistema misto di mutue, che copre circa il 94% dei lavoratori, e assicurazioni obbligatorie; un prelievo del 6,9% delle mutue contribuisce a chi non ha reddito. Le vie sono tante, ma in Italia la necessità è quella di tenere le strutture del Ssn al centro della scena medica ed evitare che si creino due sistemi paralleli: la qualità delle cure è molto alta grazie alla forza (medici, numero di pazienti, tecnologie) degli ospedali pubblici e sarebbe dissennato perderla mandando i ricchi nel privato; ne perderemmo tutti.
Repubblica – 14 giugno 2016