I sindacati lanciano il primo assalto al rinnovo del contratto dei dipendenti pubblici. E lo fanno cifre alla mano, provando a mettere con le spalle al muro il governo: «Il blocco della contrattazione dal 2010 al 2015 – dicono in coro – ci è costato 35 miliardi come certificato dalla Avvocatura dello Stato». Quindi il passo successivo è stabilire quale sia il punto di partenza di una trattativa tutta in salita, tra fondamentali dell’economia che boccheggiano e una legge di stabilità che già si annuncia irta di ostacoli. E quel punto di partenza lo hanno fissato ieri, per la prima volta, Cgil, Cisl e Uil, che hanno “inviato” a Palazzo Chigi una cifra di quelle che fanno tremare i polsi. Tanto per saggiare il campo e vedere l’effetto che fa. I tempi sono stretti: la ministra Marianna Madia ha incontrato il 26 luglio i sindacati e per il 10 settembre aspetta delle proposte dal tavolo sindacati-Aran. Lo scorso anno la Corte Costituzionale aveva dichiarato illegittimo da agosto del 2015 il blocco della contrattazione.
Escludendone la retroattività che avrebbe portato disastri e aperto una voragine nel bilancio dello Stato. L’Avvocatura generale, poi, ha quantificato il costo dei mancati rinnovi 2010-2015 in 35 miliardi. Da qui alcune valutazioni dei sindacati.
La Cgil, ad esempio, ha calcolato che i mancati aumenti in busta paga sarebbero di almeno 212 euro lordi al mese per ogni anno: basta dividere quei 7 miliardi per la platea di circa 3 milioni di dipendenti della Pa e il gioco è fatto. Anche la Uil chiede risorse «per 7 miliardi ». Soldi che serviranno a «restituire dignità e professionalità ai lavoratori». La Cisl punta l’indice sul passo indietro degli stipendi, che invece di progredire sono tornati addirittura ai livelli del 2001. «Trentacinque miliardi per cinque anni come certificato dall’Avvocatura dello Stato nella memoria presentata alla Corte Costituzionale – spiega Michele Gentile, coordinatore del dipartimento Pa della Cgil – fanno 7 miliardi. Al lordo delle tasse, per 3 milioni di dipendenti pubblici significherebbe almeno 212 euro persi ogni mese e per ognuno dei sei anni». Ma al netto delle imposte la cifra si abbassa a quota 132 euro netti, visto che dei 7 miliardi nelle casse statali ne rientrano 2,3.
«La riapertura della contrattazione presuppone la disponibilità di nuove risorse sufficienti a garantire un recupero adeguato del potere di acquisto da parte dei dipendenti pubblici», ribatte il segretario generale della Uilpa Nicola Turco mentre per il segretario generale della Cisl-Fp Giovanni Faverin, «serve un aumento di 150 euro lordi» visto che gli stipendi sarebbero tornati ai livelli del 2001: nel 2009 un dipendente pubblico percepiva circa 4.300 euro in più rispetto ad un lavoratore del settore manifatturiero ed oggi incassa 1.300 euro in meno. Contro il blocco degli stipendi è intervenuto anche il Codacons che ha presentato un ricorso collettivo al Tar del Lazio a nome dei primi 2 mila dipendenti pubblici che chiedono risarcimento danni e indennizzo da 10.400 euro per ogni ricorrente.
PALAZZO CHIGI PRONTO A MEDIARE ORA SI APRE LA CACCIA ALLE RISORSE
La distanza, almeno in apparenza, sembra incolmabile. Il primo rinnovo del contratto della Pa da sei anni entra già nella fase calda a due settimane dalla ripresa del dialogo.
Da una parte ci sono i 300 milioni di euro messi a disposizione dal governo. Dall’altra c’è un Everest tirato su a sorpresa ieri in una giornata di mezzo agosto, dai sindacati. Una montagna ripidissima, alta 7 miliardi di euro. Nel mezzo ci sono quasi 3 milioni di dipendenti pubblici che fin dal 2010, anno dell’inizio del blocco della contrattazione, aspettano un ritocco verso l’alto delle buste paga.
Tra di loro ci sono impiegati, forze di polizia e infermieri, vigili del fuoco e vigili urbani. Un po’ di tutto, con un pugno di denaro da spartire che appare insufficiente: possono quasi sembrare offensivi degli aumenti a cascata che porterebbero soltanto a poche decine di euro al mese lordi. In ogni caso sullo sfondo ci sono 900 milioni disponibili nel triennio, non briciole da cui partire e Renzi, d’intesa probabilmente con il titolare dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha già detto che «se ne può parlare», il che significa che quel tetto non è un dogma. Risulta però altrettanto offensivo, se la prospettiva è quella di Palazzo Chigi, parlare di incrementi delle retribuzioni da 215 euro proprio mentre si cerca con il lanternino qualche milione in più da distribuire all’industria che arranca o ai pensionamenti.
A mettere un primo puntello del governo ci pensa il viceministro all’Economia Enrico Zanetti che spiega le tre priorità in questa fase. E le elenca non senza qualche sorpresa: «Le risorse per la flessibilità delle pensioni? Credo sia più giusto partire dalle misure che evitino l’aumento delle imposte e che sostengano l’industria italiana riducendo la pressione fiscale delle imprese. Al secondo posto vedo come una priorità il rinnovo del contratto del pubblico impiego — aggiunge Zanetti — le iniziative sulle pensioni non possono precedere quelle a favore della crescita e del rinnovo del contratto degli statali. È sacrosanto». Insomma «tutte questioni che vanno affrontate guardandosi in faccia» dicono le parti in attesa del primo vero confronto previsto per il prossimo mese.
E quindi proprio nel bel mezzo di questo territorio non ancora esplorato, si intravede un punto di arrivo: che prenda come spunto quello dei rinnovi per i contratti delle aziende private. Dove sicuramente non si marcia ai ritmi che il sindacato vorrebbe imporre oggi nella Pa (i 215 euro al mese in più), ma comunque si va avanti a livelli dignitosi visto che in media si ragiona in termini di 100-130 euro al mese per un rinnovo con una progressione nell’arco dei tre anni. Il che significa circa 1,2-1,5 miliardi da individuare per mettere in sicurezza la trattativa. Il governo è quindi disposto a fare delle concessioni. Ma a patto di riformare la Pubblica amministrazione e cambiarne la visione. Se dal tavolo dell’Aran (l’Agenzia per la contrattazione pubblica) che si aprirà al termine delle vacanze e che dovrà portare risultati da girare al Tesoro a metà settembre, arriveranno segnali positivi in questo senso, allora il livello della contrattazione privata potrà diventare un punto di riferimento. Altrimenti lo scontro, avvertono i sindacati, sarà inevitabile e cadrà nel bel mezzo di un autunno bollente per il governo.
Repubblica – 17 agosto 2016