Marco Zatterin. Riecco il match degli «zerovirgola». Se non cambieranno all’ultimo momento, i numeri scrutati dalla Commissione Ue nella sua sfera di cristallo disegneranno stamane per l’Azienda Italia un profilo che, a Roma, faranno in fretta a definire «in linea con il programma del governo». In effetti, l’ordine di grandezza è quello, salvo la pennellata di minor ottimismo (o maggior pessimismo) con cui sono segnate le stime di primavera fatte a Bruxelles.
Il deficit risulta un poco più alto rispetto al Documento del governo (2,4 contro 2,3% del pil nel 2016) e la crescita più contenuta (1,1 contro 1,2). La rotta è quella auspicata. Per dire che sia quella buona, almeno per le regole europee, ci vorranno ancora due settimane.
Le previsioni di maggio sono un passaggio importante, ma non decisivo. Sulla base dei suoi numeri più freschi la Commissione dirà il 18 maggio se l’impianto delle politiche economiche e strutturali del governo Renzi è equilibrato. Fortemente improbabile una procedura per gli squilibri macroeconomici come per il debito eccessivo. Possibile invece una richiesta di ritocchi, soprattutto per chiarire come si intende aggirare l’aumento dell’Iva messo a salvaguardia degli obiettivi di bilancio. Intanto il deficit 2017 appare previsto all’1,9% del pil (1,8 per Roma).
Quel che è certo è che il clima fra Bruxelles e i palazzi tiberini è positivo. Si lavora per evitare uno scontro, anche se fonti altolocate ripetono che «non ci siamo ancora», nemmeno con l’estensione a quattro anni dell’«output gap», l’indicatore che misura la differenza fra crescita potenziale e quella effettiva, centrale per definire lo sforzo di correzione necessario per il disavanzo strutturale.
C’è tempo, sebbene alla fine il vero problema è che anche il 2016 sarà un anno di ripresa gracile in uno scenario globale insidioso, insufficiente a rimettere il paese sulla strada di una crescita sostenuta, quella necessaria per ripristinare la fiducia e curare la disoccupazione, indicata intorno all’11,6%. Bruxelles dice che nel 2017 il pil salirà dell’1,3%, un dato inferiore sia a quello del Def (1,4) che a quello di gennaio (1,5). E’ per questo che, oltre a promettere fedeltà agli impegni europei, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan invita l’Ue a ripensare alcune regole per consentire di togliere le briglie allo sviluppo. La flessibilità, ha detto all’Università di Bruxelles, è «qualcosa che aiuta a generare i giusti incentivi per realizzare buone politiche» e che, se messa nel Patto di Stabilità, «aiuta a convincere i miei concittadini che le riforme sono essenziali».
Roma è fautrice di interventi che rendano più facile crescere e non eccedano con il rigore fine a se stesso. Il dibattito è aperto e Padoan ha una chiara sponda nel presidente dell’Eurogruppo, l’olandese Dijsselbloem. Certo, ammette il ministro con ironia, c’è il problema che «flessibilità è una parola che pronunciata da un italiano diventa sospetta». In effetti, la povertà della fiducia reciproca che Padoan denuncia è diffusa e non aiuta. Per vincerla, una sola via: basta rispettare i patti.
La Stampa – 3 maggio 2016