di Dino Messina. Guardando la cartina del parco nazionale dell’Appennino lucano, che con i suoi 69 mila ettari fa da cerniera tra il parco del Cilento-Vallo di Diano a Ovest e il Parco del Pollino a Sud, ci si chiede il perché di quella strana forma. Che a Sud, attorno al Monte Raparo, ha un nucleo compatto ed esteso, poi verso la Val D’agri si assottiglia in due bracci di elevato interesse naturalistico, per ricompattarsi nelle montagne di Pierfaone e di Rifreddo. La risposta è racchiusa in una parola: petrolio.
Il parco, spiega il presidente dell’ente, Domenico Totaro, un ingegnere che da una decina d’anni dedica tutto il suo impegno a vincere una sfida difficile, «era già previsto nella legge quadro numero 394 che regolamenta tutte le aree protette italiane, ma è stato istituito soltanto con un decreto dell’8 dicembre 2007». Il perché di tanto ritardo? È stata data la precedenza alla dislocazione dei pozzi di petrolio, presenti soprattutto nei territori di Viggiano, Calvello, Grumento, Montemurro, Marsico Vetere e Marsico Nuovo.
Dopo estenuanti discussioni e lunghi iter burocratici, è stata infine definita l’area del parco. Non piccola per la verità, che racchiude una straordinaria biodiversità.
Cominciamo dalla fauna e da alcune specie che non hanno mai abbandonato questo territorio, anche negli anni in cui la caccia indiscriminata e il disinteresse per l’ambiente avevano impoverito tutte le dorsali montuose italiane. Il naturalista Remo Bartolomei spiega che con il sistema delle fototrappole sono stati censiti oltre trenta esemplari di lupi, che si nutrono di cinghiali ma soprattutto di pecore (ammontano a 120 mila euro all’anno i danni provocati da predatori e ungulati). Lungo gli affluenti del fiume Agri e attorno alla diga del Pertusillo vivono colonie di lontre. E nei boschi più fitti sono stati reimmessi i cervi, che erano qui stanziali sino al diciannovesimo secolo. Qualche tempo fa è stato trovato su una strada, investito da una macchina, un gatto selvatico. Una presenza che indica una natura incontaminata.
Si ripete nel parco dell’Appennino lucano, soprattutto nelle zone più lontane dai pozzi, il miracolo di tutte le dorsali montuose italiane: con una politica protezionistica, che significa caccia vietata e monitoraggio ambientale, assistiamo a un ritorno di specie selvatiche che ormai erano state date per estinte. «È il caso — spiega Bartolomei — delle quattro coppie di grifone, una specie di avvoltoio reintrodotto nel Pollino ma che poi ha preferito riprodursi nelle aree del nostro parco. O delle tre coppie di cicogne nere, che svernano in Nord Africa e nidificano nei nostri boschi».
A parte quelli disseminati nelle aree contigue, all’interno del Parco sono presenti sette pozzi petroliferi. Il Parco, spiega Totaro, è nato con questo handicap, «ma è una fortuna che ci sia, perché noi svolgiamo una funzione di monitoraggio e di controllo. Se non ci fossimo, sarebbe un disastro». Parliamo allora dell’inchiesta della magistratura ancora in corso e della moria di pesci nella diga del Pertusillo, non lontano dal pozzo di Costa Molina, dove sembra siano stati immessi liquidi di scarto che hanno inquinato le falde. «Non escludo che ci siano stati dei danni — dice serio Totaro — ma l’inchiesta della magistratura, alla quale noi collaboriamo anche attraverso i controlli fatti dalle nostre guardie forestali, è ancora in corso e siamo tenuti al riserbo. Posso dire però che i ripetuti controlli presso un laboratorio di Foggia sulle carcasse di pesci hanno escluso la presenza di metalli: si è trattato probabilmente di una moria dovuta alla proliferazione di alghe. Aggiungo infine che per noi del Parco il pozzo di Costa Molina deve essere chiuso e credo che anche l’Eni (ora che gli impianti sono stati dissequestrati, ndr ) sia di questo avviso».
Caso unico dei 24 enti nazionali, qui le guardie del parco badano non solo al bracconaggio, alle costruzioni abusive, ai prelievi illeciti, ma sorvegliano anche che le estrazioni non facciano danni.
Intanto il numero dei turisti è cresciuto, a settembre si conosceranno i primi dati. Sono stati tracciati circa venti sentieri (dal percorso attorno al lago Laudemio, di origine glaciale, sul monte Sirino, ai cammini nelle foreste di abetina di Laurenzana, nelle faggete di Viggiano o di Moliterno). Venticinque guide specializzate, a tariffe davvero contenute, aiutano alla scoperta di un territorio ricco e davvero bello.
Il Corriere della Sera – 23 agosto 2016