Che all’Inpdap ci fosse un grosso problema di contributi non versati dalle amministrazioni pubbliche è dimostrato, come spiegheremo tra un attimo, dagli atti intrapresi dallo stesso istituto, che più volte del resto aveva denunciato la situazione. Il comunicato congiunto diffuso ieri sera dai ministeri del Lavoro e dell’Economia non contesta che fino al ’95 lo Stato non abbia versato i contributi per i suoi dipendenti, come sta scritto nella nota di assestamento al bilancio 2012 dell’Inps (e quindi è ragionevole pensare che sia andata così) ma definisce del tutto infondata la successiva affermazione, cioè che dal ’96 sia stata versata all’Inpdap solo la quota di spettanza del lavoratore (8,75%) e non quella a carico delle amministrazioni (24,2%).
«Per quanto dato di conoscere», premettono i ministeri, non è vero. Il punto è che nessuno sa bene come stiano le cose. I vertici dell’Inpdap più volte in passato avevano confessato che era complicato ricostruire le storie contributive degli iscritti ereditate su fascicoli cartacei dalle diverse casse statali preesistenti alla costituzione dell’Inpdap nel ’96.
Certo si può anche sostenere che, trattandosi di dipendenti pubblici, è tutta una partita di giro interna al bilancio pubblico, nel senso che lo Stato dovrebbe versare a se stesso i contributi e quindi pagare le pensioni. È evidente che se non versa i contributi mese per mese si apre un buco nei conti, ma se questo viene ripianato a piè di lista con i trasferimenti dal bilancio, come è sempre avvenuto, il risultato non cambia e il pagamento delle pensioni viene assicurato. Solo che inglobando l’Inpdap dentro l’Inps quanto meno bisognerà stabilire delle regole comuni.
Di certo l’Inps, a meno che le norme non dispongano diversamente, dovrà comportarsi verso le amministrazioni pubbliche che non pagano esattamente come fa verso le imprese, prima contestando gli addebiti e poi girando la pratica a Equitalia. A dire il vero, lo stesso Inpdap si era mosso in questo senso, ma solo alla fine del 2009. In quell’anno l’allora commissario straordinario Paolo Crescimbeni firma il 20 luglio un accordo con i servizi ispettivi del ministero del welfare. «Partono i controlli a tappeto sui versamenti contributivi degli enti pubblici», annuncia l’Ansa. Poi Crescimbeni denuncia il fenomeno. Con cautela, per carità: «A volte le amministrazioni sono inadempienti, versano solo in parte i contributi o non presentano neppure le dichiarazioni mensili come previsto dalla legge. Occorre attivare gli stessi strumenti di verifica che valgono per i datori di lavoro privati». Passano 8 mesi e Crescimbeni firma una convenzione con l’Agenzia delle Entrate per «verificare e controllare la regolarità dei versamenti contributivi in favore dei pubblici dipendenti». Si arriva poi al 28 dicembre 2010 quando l’Istituto emana un regolamento su «omissioni ed evasioni» dei contributi che regola le sanzioni da applicare fino a un massimo del 40% e del 60% secondo i casi. Come spiegava il «Giornale dell’Inpdap» i «destinatari» del provvedimento «sono tutte le amministrazioni pubbliche o private iscritte all’Istituto; dal punto di vista soggettivo, ciò comporta che sul dirigente preposto agli adempimenti contributivi gravino la responsabilità disciplinare e l’obbligo di pagamento delle sanzioni. L’atto in questione ottempera a quanto previsto dalla legge finanziaria del 2001». Passa poco più di un mese e il 7 febbraio 2011 l’Inpdap firma un accordo con Equitalia per «rendere più efficiente e tempestiva la riscossione coattiva» dei contributi evasi. Accordo, dice ora l’Inps, che si intende rinnovato e pienamente operativo.
Niente rischi per i pensionati ma il deficit?
L e fusioni non portano bene all’Inps. Già qualche anno fa l’accorpamento dell’Inpdai — l’ente di previdenza dei dirigenti industriali — ha creato problemi finanziari all’Istituto nazionale di previdenza. Ora si scopre che la nascita del Super Inps, con la fusione di Inpdap (dipendenti pubblici) ed Enpals (lavoratori dello spettacolo e dello sport), ha provocato un disavanzo patrimoniale di oltre 10 miliardi e quasi 5,8 miliardi di passivo nel 2012.
Un’idea giusta per risparmiare, e sfruttare le economie di scala rischia, invece, di avere effetti devastanti sui conti dell’Inps. Il deficit, infatti, è destinato a crescere: in futuro ci saranno sempre meno dipendenti pubblici. E sempre più pensionati (pubblici). Subito ministero e Inps si sono affrettati a precisare che tutto era noto, tutto era previsto. Che si può stare tranquilli. Ma quel che era lecito prima — non versare all’Inpdap la quota di contributi a carico del datore di lavoro, lo Stato, tanto si trattava dello stesso soggetto che poi avrebbe erogato la pensione — non è più lecito ora che la gestione viene affidata a un ente terzo, l’Inps. Qualche soluzione strutturale dovrebbe essere trovata. E presto.
Ma i pensionati hanno di che preoccuparsi? Probabilmente no. L’ultima riforma ha messo in equilibrio il sistema previdenziale. Lo spostamento in avanti dell’età pensionabile e l’agganciamento dei requisiti e dei meccanismi di calcolo alle statistiche demografiche consentono di proiettare questa stabilità anche nel futuro. L’incidenza della spesa pensionistica sul Pil è destinata nei prossimi anni addirittura, a scendere. Questa vicenda non può non lasciare l’amaro in bocca. Si è fatto tanto perché nel lungo periodo l’Inps, e tutto il sistema previdenziale, fossero in grado di camminare sulle loro gambe. E, invece, dovremmo rivedere ancora per molto tempo lo Stato che, anno dopo anno, è costretto a ripianare — si spera senza aumentare le tasse — il deficit creato con la fusione dell’ex ente dei lavoratori pubblici. Quasi che i sacrifici richiesti ai lavoratori non fossero serviti a niente. O quasi.
Non possiamo nemmeno immaginare altre soluzioni. O scorciatoie. Come, ad esempio, l’utilizzo delle gestioni in attivo per coprire il buco Inpdap. Allora sì che la grande riforma e i sacrifici chiesti ai lavoratori rischierebbero di essere inutili. Con il pericolo di un’altra, ennesima, riforma.
Corriere della Sera – 2 ottobre 2012