I veneti tornano alla campagna. Specie se sono cassintegrati, pensionati o esodati. E soprattutto se fare agricoltura significa piantare viti in area Docg. Sembra fuori contesto, ma la segnalazione giunge dai produttori di latte, riuniti ieri a Treviso per analizzare la situazione del comparto dopo la caduta delle quote e confrontare il quadro nazionale con i competitor stranieri, dall’Europa alla Nuova Zelanda.
Se fino a poco fa era abbastanza facile prendere in affitto un paio di ettari per coltivare mais per alimentare le vacche da latte o per la fienagione, ha lamentato più di qualcuno, adesso si comincia a far fatica e i canoni aumentano. Perché? Semplice: i proprietari possono proporre lo stesso suolo, in particolare in area pedemontana, a soggetti interessati a piantare barbatelle, possibilmente di Prosecco. Si tratta a volte di aziende agricole già operative che cercano spazi di espansione ma non mancano persone che hanno lasciato il mercato del lavoro, perché pensionati, o ne sono state espulse, oppure che sfruttano il tempo lasciato libero da provvedimenti di cassa integrazione nella loro azienda. È la riedizione evoluta, insomma, del «metalmezzadro» degli anni ‘70 e ‘80. Al netto dell’investimento iniziale, una volta a regime, un ettaro nella striscia magica del vino trevigiano rende fino a 15 mila euro l’anno e non è un caso se, fra il 2011 ed il 2014, nella sola fascia fra Valdobbiadene e Conegliano, gli ettari di vigneto Docg o Doc sono passati da 5.750 a 6.850.
«Il fenomeno esiste – riconosce anche Roberto Cecchel, capozona della Coldiretti di Valdobbiadene – ma non credo che questo possa davvero complicare le possibilità di approvvigionamento di cibo per i bovini da latte. Del resto la tradizione contadina veneta ha sempre fatto della diversificazione uno strumento di garanzia per la continuità del reddito. La stalla poteva compensare danni meteorologici alle coltivazioni di una certa annata e, viceversa, i frutti dei campi salvavano il proprietario da inconvenienti nell’allevamento. Adesso il latte va male e il vino va bene, mi sembra normale che si assista ad un riadattamento dei suoli. Però – conclude – di campi abbandonati ne vedo ancora tanti».
La dinamica dell’accelerazione sui vigneti è comunque notata anche da Armando Serena, presidente dell’associazione agricola di Asolo e Castelfranco. «Certo, in questo momento nessun suolo rende come quello coltivato a vitigno, ma per intraprendere un investimento ragionevole bisogna puntare almeno su una decina d’ettari. Dimensioni minori sono utili senz’altro ad arrotondare il reddito, a condizione che la terra uno la possieda già. Piuttosto stiamo osservando dalle nostre parti l’espansione di aziende della Sinistra Piave, dove le zone utili sono sostanzialmente tutte sature».
Se crescono gli ettari a vite, intanto, in Veneto scendono le aziende del lattiero caseario, passate, negli ultimi dieci anni, da 7.300 a 3.700 circa. È aumentata la produzione media, da 160 mila a 295 mila litri, segno di un ingrandimento delle singole unità, ma quello che non torna più è il margine. Con costi di produzione vicini ai 40 centesimi al litro, prezzi di vendita fra i 35 e i 37 centesimi e la competizione straniera, hanno spiegato gli allevatori ieri a Treviso, se accanto alla stalla non c’è anche un vigneto stare in piedi diventa impossibile. E se l’unico vero strumento di difesa rimasto è quello della produzione casearia di qualità, l’arma rischia di rivelarsi spuntata se non vengono applicate regole serie per la tutela del consumatore. «La Gdo italiana – ha constatato il direttore del consorzio Grana Padano, Stefano Berni – di certo non lo fa, chi si avvicina al banco frigo non sa se davanti ha formaggi italiani o imitazioni romene o estoni».
Il Corriere del Veneto – 13 giugno 2015