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Padova. Trent’anni fa il primo trapianto di cuore in Italia. Il ragazzo, il genio e la notte che cambiò la medicina: «Gallucci scrisse la storia». L’applauso dopo il primo battito

Sono le 23.45, una Mercedes grigia taglia la nebbia che ovatta suoni e colori e arriva all’ospedale Ca’ Foncello di Treviso. Scendono i professori Vincenzo Gallucci, Giovanni Stellin e Giuseppe Faggian. Devono prelevare il primo cuore donato in Italia, quello di Francesco Busnello, diciottenne morto in un incidente con la moto, e portarlo a un falegname di Vigonovo, Ilario Lazzari, che aspetta a torace aperto in una sala operatoria del policlinico di Padova.

L’uomo, 38 anni, soffre di una grave cardiomiopatia, da settimane è in Terapia intensiva, l’unica salvezza è il trapianto di cuore. Ma prima d’ora non è mai stato eseguito nel nostro Paese. E’ la notte fra il 13 e il 14 novembre 1985, si sta scrivendo un pezzo di storia della medicina. «L’elettroencefalogramma di nostro figlio era piatto da 12 ore, non c’era più niente da fare — dirà Roberto Busnello —. Mia moglie Marina e io eravamo distrutti, ma abbiamo voluto onorare la generosità di Francesco, sempre pronto ad aiutare gli altri, con gli scout e la parrocchia, e abbiamo autorizzato la donazione». «Mia moglie era la sua insegnante di Diritto — spiega Claudio Dario, oggi dg dell’Azienda ospedaliera di Padova e allora cardiologo a Treviso — abbiamo seguito tutto con trepidazione».

Il direttore sanitario del Ca’ Foncello, Domenico Stellini, è perplesso, l’operazione gli sembra un azzardo, il nullaosta firmato l’11 novembre dal ministro della Sanità, il veneto Costante Degan, è incompleto: manca una firma, che arriverà 24 ore dopo. «Stellini si convinse quando Gallucci, forte del permesso ottenuto al telefono da Degan, gli consegnò una liberatoria che il dirigente portò in Procura — ricorderà il professor Alessandro Mazzucco, nelle stesse ore in sala operatoria a Padova a preparare Lazzari, con il collega Uberto Bortolotti —. Intanto il via al prelievo lo diede Adriano Cestrone, allora vicedirettore sanitario e in seguito direttore generale prima dell’Usl e poi dell’Azienda ospedaliera di Padova». Ma c’è un altro problema: il cuore di Francesco, che pesava 70 chili, è più piccolo di un quarto rispetto a quello di Ilario, che ne pesa 85. Rapida telefonata tra Gallucci e Mazzucco, che chiama i colleghi esperti della Stanford University e riceve la risposta sperata: non è un ostacolo. Finalmente inizia il prelievo, che dura sei minuti, quindi il cuore viene riposto in un contenitore di plastica. «Non c’era tempo da perdere, alle 3.10 siamo ripartiti da Treviso scortati da due pattuglie della Polstrada — racconta Stellin, che era alla guida, Gallucci al suo fianco con il cuore imballato sulle ginocchia, Faggian dietro —. Alle 4 eravamo in sala operatoria, con un’équipe di 15 persone. Ricordo l’impressione che mi fece vedere un torace senza cuore dentro. Mi sono emozionato. Era il coronamento di anni di lavoro preparatorio: Gallucci era andato a imparare la tecnica di trapianto in Nord Carolina, io a Pittsburgh, Faggian e Bortolotti in altri centri Usa».

In ospedale a Padova c’è un silenzio irreale, centinaia di giornalisti sono relegati nell’atrio da ore. In sala operatoria i gesti precisi e sicuri di Gallucci, affiancato da Mazzucco e Bortolotti, sono accompagnati dalle note di Beethoven, le sue preferite. Alla testa del letto operatorio la lista con la sequenza dei passaggi, che Faggian e il dottor Carlo Sorbara scandiscono. «Il trapianto durò tre ore — rievoca il professor Giampietro Giron, che vi partecipò in qualità di primario di Anestesia — ricordo come fosse oggi l’applauso liberatorio partito dalla perfusionista Luigina Stievano quando il nuovo cuore iniziò a battere nel petto di Lazzari». «Alle 7 di quel 14 novembre mio padre ci telefonò e disse: abbiamo finito, è andato tutto bene — rivela Stefano Gallucci — ci fece vivere l’evento come fosse l’episodio più normale del mondo. E’ stato pazzesco il dopo, l’attenzione mediatica, l’orgoglio del Paese per quello che aveva fatto papà: lo riconoscevano ovunque. In autostrada a Napoli il casellante gli disse: buongiorno professore».

Il decorso post-operatorio di Lazzari andò bene, appena aprì gli occhi ringraziò i medici, disse di sentirsi un leone e di aver voglia di un piatto di pastasciutta. Due giorni dopo già mangiava, faceva cyclette e desiderava «una donna bellissima e forte come l’acciaio». Morirà nel 1992, di Aids, per una trasfusione infetta. Un anno prima un incidente stradale a Verona si era portato via Gallucci, a 55 anni. Domani l’Università e l’Azienda ospedaliera di Padova ricorderanno i 30 anni da quella notte speciale, con una lunga giornata tra il Bo e il Museo della Medicina, a cui l’Azienda ospedaliera ha donato due cuori artificiali. La nuova frontiera che oggi il primario del Centro Gallucci, professor Gino Gerosa, sta mettendo a punto, nel tentativo di arrivare al primo cuore artificiale totale italiano. Ma bisogna trovare 50 milioni di fondi. Intanto il cardiochirurgo e la sua équipe hanno scritto il libro «L’altro cuore», che racconta le storie dei pazienti e sarà presentato domani.

Michela Nicolussi Moro – Il Corriere Veneto – 12 novembre 2015 

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