di Maurizio Benetti e Mauro Marè. Un numero elevato di leggi ha cercato in questi ultimi venti anni di realizzare un sistema pensionistico totalmente contributivo – sistema a ripartizione, cioè pensione calcolata in base ai contributi versati ma pagata dagli attivi – e di modificare l’età di accesso alla pensione.
La riforma Monti-Fornero (2011) ha perciò chiuso un ciclo aperto da Amato (1992) e Dini (1995). Gli interventi si sono concentrati essenzialmente sui lavoratori, cioè i futuri pensionati, modificando (o rallentando) di volta in volta le condizioni di accesso, oppure riducendo il grado di generosità delle pensioni implicito nel retributivo italiano – sistema a ripartizione ma con prestazioni calcolate come una percentuale delle ultime retribuzioni. Quindi, si è intervenuti sul “diritto alla pensione” alquanto prima che esso fosse maturato: per questa ragione le riforme erano possibili e accettabili politicamente, perché avevano una fase di transizione alquanto lunga e agivano sull’offerta di pensioni futura. Il quadro adesso però cambia perché lo spazio per ulteriori interventi sugli attivi sembra essersi del tutto consumato.
A disposizione, per una diminuzione di spesa pensionistica, resta quello per interventi sulle pensioni in essere, o “diritti acquisiti”. E infatti da tempo si è agito raffreddando l’ampiezza dell’indicizzazione delle pensioni, o definendo un vero e proprio prelievo sulle pensioni elevate. Lo spazio di intervento in futuro sarà perciò solo sulle pensioni. Anche se coerente con l’equità generazionale, questa prospettiva ha sollevato alcuni dubbi: può violare il contratto implicito tra le generazioni, avere effetti negativi sulle condizioni di vita dei pensionati, fino all’incostituzionalità.
Innanzitutto, parlare di contratto (anche se implicito) o diritti acquisiti non appare, in senso stretto, del tutto appropriato. È un escamotage che i governi hanno usato per giustificare la loro azione. Infatti, quello pensionistico è il tipico esempio di contratto asimmetrico e incompleto, firmato solo da una parte, i lavoratori spesso vicini alla pensione. Le altre parti, essendo in età infantile o non ancora nate, o non lavorando ancora, sono state rappresentate dai governi che hanno usato i sistemi a ripartizione per scaricare i costi di offerta delle prestazioni sulle future generazioni, senza sopportarne il costo politico. Non è un’accusa, è ovvio che ciò avvenisse ed è successo dappertutto, nei paesi Ocse e altrove.
Il problema che abbiamo adesso è che nessuno poteva prevedere tassi di crescita del reddito molto negativi per un lungo tempo e che le riforme pensionistiche sono state realizzate senza considerare adeguatamente l’andamento del mercato del lavoro. È quest’ultimo l’aspetto più grave, poiché le pensioni offribili in un sistema pensionistico dipendono dal reddito e dalla sua crescita, a loro volta dipendenti dal mercato del lavoro, e ciò è forse più evidente in un sistema a ripartizione.
Lo scambio generazionale è una questione molto complessa e difficilmente risolvibile: il “regalo” fatto alle generazioni di pensionati che hanno usufruito a pieno del sistema retributivo pesa sensibilmente sulle dimensioni dello stock di spesa anche a causa dei ritardi e della lentezza del processo di riforma, ma è una promessa fatta dallo Stato in base alla quale sono state prese decisioni personali di risparmio e di pensionamento ed è difficile adesso rivederla. Tuttavia, la violenza della polemica sulle pensioni d’oro, sui giornali e sul web, pur nei suoi toni populistici, fa emergere con chiarezza un punto cruciale: un sistema pensionistico a ripartizione, con le pensioni finanziate dai contributi di chi lavora, appare accettabile dai lavoratori che pagano nella misura in cui le pensioni attese risultino simili a quelle in via di maturazione. Può diventare inaccettabile – come purtroppo sta avvenendo – se i lavoratori hanno la percezione di dover finanziare con i contributi pensioni sensibilmente più alte di quelle che essi potranno avere.
Parte degli attivi si sta orientando a chiedere una ridefinizione dello stock di spesa pensionistica, con una riduzione delle stessa e con forme esplicite di prelievo sulle pensioni oltre una certa soglia. A complicare il quadro, c’è anche il fatto che parte della storia contributiva degli individui, su cui agire per definire un prelievo solidaristico, non sia disponibile ed essa è spesso il frutto di stime più o meno condivise.
I governi devono trovare una via di uscita agendo da garante tra le generazioni – è un compito difficile. Si deve intervenire prima che giovani e vecchi si scontrino.
Il Sole 24 Ore – 4 marzo 2014