Alessandro Barbera. Che cosa accadrà lunedì, lo sa solo Matteo Renzi. Sarà lui a decidere se il consiglio dei ministri convocato senza ordine del giorno risolverà o meno la grana pensioni. La decisione della Corte costituzionale ha virtualmente scavato un buco di quasi 12 miliardi nei conti pubblici ma soprattutto ha complicato la vita al governo, che ora deve affrontare l’ultimo scorcio di campagna elettorale per le regionali con un dilemma amletico. Cosa scegliere fra due mali?
L’approvazione di un decreto che accontenti almeno la fascia dei pensionati meno ricchi o invece il rinvio del problema al primo giugno, correndo il rischio che nel frattempo montino rabbia e ricorsi? La squadra del premier al partito e a Palazzo Chigi non ha dubbi: meglio rinviare. Il Tesoro la pensa all’opposto, perché Bruxelles si aspetta chiarezza e non ama l’ammuina finanziaria. Se i tempi si allungassero – ragionano gli uomini di Padoan – la Commissione europea potrebbe sottrarci la flessibilità promessa (sei miliardi) sui conti di quest’anno. In mezzo c’è il Quirinale: è imbarazzato all’idea di firmare un decreto che rinvii gli effetti della sentenza (i falchi renziani ne hanno anche approfondito la legittimità costituzionale), mentre è neutrale all’ipotesi che il governo prenda qualche altro giorno per riflettere. Se però l’attesa si dovesse fare lunga, significherebbe ignorare la decisione della Consulta, nel frattempo diventata esecutiva.
Ieri sera il termometro di Palazzo Chigi virava ad un generico rinvio. Ed è quello che si intuiva fra le righe di una dichiarazione di Padoan da Tblisi: «di pensioni discuteremo lunedì». Dice «discuteremo», non «decideremo». Renzi ha sul tavolo due o tre ipotesi per rispondere alla sentenza, e nessuna di queste per ora lo soddisfa. Con i fondi a disposizione è ormai certo che solo la prima fascia di pensionati interessati dal blocco (quelli con assegni attorno ai 1.500 euro netti) avrebbe la restituzione di tutti gli arretrati. Per gli altri ci sarebbe solo un rimborso parziale e a scalare per gruppi di redditi, azzerato attorno a 3.000-3.200 euro.
Proprio ieri l’ufficio parlamentare di bilancio ha pubblicato uno studio che stima quanto dovrebbe ricevere ciascun pensionato nel caso in cui la sentenza venisse applicata alla lettera. I tecnici hanno valutato il peso dei rimborsi nel «peggiore scenario» con arretrati che vanno dai tremila euro per un pensionato «tipo» con assegno mensile pari a tre volte e mezzo il minimo (1.640 euro circa) ai settemila per gli assegni nove volte il minimo. Attenzione però: si tratta di cifre ipotetiche, perché la sentenza – lo aveva detto Renzi, ma lo ha lasciato intendere anche la presidenza della Corte – non impone di pagare tutto a tutti. In ogni caso il governo non stanzierà più dello spazio di manovra sul deficit che la Commissione europea ci concederà, e che non è superiore ai 3,5 miliardi. In una audizione a porte chiuse in Senato, martedì, il vice al Tesoro Morando ha detto esplicitamente che i rilievi della Corte riguardano due aspetti specifici: la durata troppo lunga del blocco e il fatto che non fossero stati previsti scaglioni progressivi. Di qui la proposta – una delle tante di cui si discute in queste ore – di restituire i fondi come se il blocco fosse durate un anno solo, e non due.
Comunque vada a finire, la vicenda si trascinerà a lungo con un conflitto istituzionale latente. Renzi è sempre più convinto che alla Consulta ci sia stato qualche giudice mosso da finalità politiche. A mettere benzina sul fuoco si è aggiunta una polemica sul ruolo dell’Avvocato dello Stato Giustina Noviello, chiamato a difendere il governo nella causa di fronte alla Corte. L’economista ed esponente di Italia Unica Riccardo Puglisi le ha contestato la mancata valutazione degli effetti finanziari della sentenza, nonché alcuni tweet – poi “criptati” dalla stessa Noviello – in cui ha dato voce ai critici della legge Fornero. Proprio la legge che, in nome del popolo italiano, era chiamata a difendere di fronte alla Consulta.
La Stampa – 15 maggio 2015