Già protagonista di una turbolenta stagione al ministero della pubblica amministrazione quando al governo c’era Berlusconi, la nomina di Renato Brunetta al dicastero è uno degli atti più pesanti del governo Draghi considerata anche l’enfasi data alla riforma dell’intero settore in vista del «Recovery Fund».
Nel 2009 la cosiddetta «Legge Brunetta» ha introdotto la valutazione del «merito» e metodi di incentivazione della «produttività», una riforma dei procedimenti disciplinari e quella dirigenza pubblica con il taglio degli stipendi accessori per i dirigenti di strutture «inefficienti», oltre a misure sul precariato. Da allora, più volte sono state annunciate altre riforme della Pa, sempre ispirate a nuove sanzioni, visite fiscali all’Inps e licenziamenti più facili e rapidi, in una costante tendenza a colpevolizzare i dipendenti pubblici giudicati impropriamente come «furbetti del cartellino» e «assenteisti».
Consigliere economico della presidenza del Consiglio con i governi Craxi, Amato e Ciampi, presidente della commissione per la Riforma del mercato del Lavoro con il ministro Gianni De Michelis, Renato Brunetta approda per la prima volta al governo nel 2008 con Silvio Berlusconi, chiamato a ricoprire l’incarico di ministro della Pubblica amministrazione. Classe 1950, economista e professore universitario, in Forza Italia si è sempre occupato di tematiche economiche, come europarlamentare, deputato e responsabile Economia del partito. Capogruppo alla Camera tra il 2013 e il 2018, in questa legislatura spesso ha seguito una linea eterodossa rispetto a quella ufficiale del partito, soprattutto quando si è trattato di distinguersi dalla Lega sulle questioni legate all’Unione europea, da ultimo nella difesa della riforma del Mes.
Il ritorno di Brunetta: dopo dieci anni ritrova le riforme avviate. Resta da attuare la sfida sul merito, ora da giocare al centro del Recovery plan
Il Sole 24 Ore. Renato Brunetta torna a Palazzo Vidoni dopo 10 anni. E ritrova un pezzo importante delle sfide affrontate dalla riforma che porta il suo nome: nel contesto nuovo determinato dal Recovery Plan che proprio nel rilancio della pubblica amministrazione incontra lo snodo cruciale per passare dall’orizzonte speranzoso delle stime di crescita al terreno concreto dell’attuazione di investimenti e riforme. Sul tema le bozze elaborate dal governo Conte-2 sono state parche di indicazioni. Troppo parche, secondo l’opinione corale degli osservatori in Italia e a Bruxelles.
Nel dibattito generalista, complice una certa esuberanza polemica dell’economista veneziano, la riforma portata avanti da Brunetta nel quarto governo Berlusconi è stata legata in modo quasi esclusivo alla lotta contro i «fannulloni». Un filone per certi versi fortunato, al punto che anche i suoi successori alla Funzione pubblica lo hanno seguito ritoccando, precisando e inasprendo le misure pensate nel 2009.
Ma la riforma Brunetta era molto altro. Ha riordinato i 22 settori contrattuali che tra personale e dirigenza dividevano la pubblica amministrazione italiana, costruendo una geografia in 4 comparti e altrettante aree dirigenziali che ha trovato attuazione con il primo rinnovo contrattuale firmato tre anni fa durante il governo Gentiloni. E ha provato a far sventolare negli uffici pubblici la bandiera di una «meritocrazia» intesa come diversificazione delle buste paga in base ai risultati individuali e di ufficio. E qui non si può certo parlare di successo.
Le ragioni sono tante, a partire dal paziente lavoro di cucitura chiesto dall’attuazione di riforme così complesse, e reso impossibile dall’alternarsi spesso impetuoso di governi e stagioni politiche. Perché soprattutto in una macchina complessa come l’amministrazione pubblica italiana leggi delega e decreti attuativi sono solo il prologo di una storia che deve svilupparsi nel lavoro amministrativo più nascosto. Con esiti a volte curiosi. Per esempio n0n sarà felice, Brunetta, di sapere che giusto in questi giorni Palazzo Vidoni ha cancellato l’obbligo di monitoraggio che imponeva a tutte le Pa di comunicare ogni mese i dati sulle assenze. Contemporaneità sfortunata, per uno dei temi più “cari” al neoministro.
Sul suo tavolo il ridisegno della Pa nell’ottica del Recovery Plan si incrocia con una delle stagioni contrattuali più ricche della storia recente, con poco meno di sette miliardi di euro da destinare ai rinnovi. Cgil, Cisl e Uil hanno voluto avviare il confronto con uno sciopero caratterizzato da tassi di adesione vicini allo zero. Ma la partita, delicata, è ancora tutta da giocare.