Tfr in busta paga, tassazione maggiorata su fondi pensioni, casse di previdenza private e sullo stesso Tfr, rivalutazione negativa dei montanti contributivi: sul sistema previdenziale rischia di abbattersi una tempesta perfetta. La maggior parte degli ingredienti è contenuta nel disegno di legge di stabilità, mentre l’ultimo è frutto dell’aggiornamento annuale del valore calcolato dall’Istat. La rivalutazione del montante. Con l’introduzione del sistema contributivo, avvenuta nel 1995, si è deciso di collegare la rivalutazione annuale del montante accumulato da ogni lavoratore alla media della variazione del Pil del Paese nel quinquennio precedente. Un meccanismo pensato per garantire, insieme ad altri elementi tecnici, la sostenibilità del sistema, obiettivo che il sistema retributivo ha dimostrato di non poter raggiungere. Peccato però che il tasso di crescita dell’Italia dal 1990 a oggi ha intrapreso una lunga discesa e di conseguenza il tasso di rivalutazione si è ridotto sempre più rispetto al 5,6% iniziale.
Dopo il 2010, quando ha iniziato a far sentire i suoi effetti il tracollo dell’economia registrato nel 2009, il tasso di rivalutazione è sceso per la prima volta sotto il 2% e poi ancora più in basso ma si è tenuto positivo. Fino a quest’anno, quando ha raggiunto quota -0,1927 per cento. Di conseguenza i contributi versati e rivalutati fino al 31 dicembre 2013 (perché il tasso si applica retroattivamente) questa volta invece di crescere diminuiranno, seppur di poco. L’evento, prevedibile e atteso dagli addetti ai lavori, ora pone una questione politica e di opportunità, cioè si deve decidere se applicare il meccanismo così come era stato ideato e quindi erodere il montante accumulato oppure modificare le regole per garantire almeno un tasso di rivalutazione nullo.
I fondi pensione
Gli altri colpi al sistema previdenziale attuale sono tutti contenuti nel disegno di legge di stabilità messo a punto dal governo. Per recuperare risorse è stato previsto l’innalzamento della tassazione sui fondi pensione complementare dall’11 al 20 per cento. Decisione che avrà come effetto una riduzione dei rendimenti netti riconosciuti ai lavoratori che hanno scelto di investire nella previdenza complementare per incrementare l’assegno pensionistico e quindi pensioni più magre.
Il prelievo per le Casse
Effetto analogo sarà determinato da un’altra previsione contenuta nella legge di stabilità, cioè la mancata conferma della tassazione al 20% per le casse di previdenza privatizzate che contano circa 1,5 milioni di iscritti. Il prelievo salirà al 26%, determinando una riduzione degli assegni pensionistici di circa il 10 per cento.
Il Tfr
Il terzo intervento riguarda il trattamento di fine rapporto. Da una parte viene innalzata dall’11 al 17% la tassazione sulla rivalutazione delle somme accantonate. Dall’altra si dà la possibilità, in via sperimentale per un triennio, di incassare subito il Tfr che si matura in tale periodo (anche se destinato ai fondi pensione), assoggettandolo peraltro alla tassazione ordinaria invece di quella separata. Chi sceglierà questa soluzione avrà quindi un doppio effetto: a fine carriera lavorativa avrà un Tfr inferiore rispetto a quello che avrebbe accumulato senza incassarlo e nei prossimi tre anni pagherà più tasse. Chi invece lascerà il trattamento di fine rapporto “maturare” fino alla pensione avrà un rendimento minore per effetto dell’incremento dell’aliquota.
Il tutto a fronte delle prospettive di pensioni particolarmente “magre” per i più giovani. Quale effetto di un’entrata nel mercato del lavoro in età sempre più avanzata, della prospettiva di alternare periodi di attività con altri di disoccupazione e di retribuzioni (e quindi contributi) che tendono al basso, c’è il rischio che il tasso di sostituzione per chi andrà in pensione tra 20-30 anni sia inferiore al 60% e che l’assegno non risulti adeguato, cioè non sia sufficiente per garantire un livello di vita accettabile. Con questi quattro interventi il quadro peggiorerà ulteriormente.
Le possibili soluzioni
Una tempesta perfetta, a cui ora il governo dovrà cercare di porre rimedio, anche a seguito delle sollecitazioni arrivate nei giorni scorsi. La commissione Finanze della Camera, per esempio, ha chiesto che sia eliminato o almeno smussato l’aumento della tassazione sui fondi pensione e sulla rivalutazione del Tfr. I rappresentanti della Casse di previdenza hanno incassato l’apertura del ministro dell’Economia a rivedere le decisioni che le riguardano. Ma il problema è trovare una soluzione mantenendo saldi invariati: per i fondi pensioni servono 340 milioni di euro all’anno, per la rivalutazione del Tfr altri 140 milioni, per le Casse 50 milioni. Il tema delle coperture riguarda anche il tasso di rivalutazione del montante contributivo: all’interno dell’Esecutivo c’è chi sottolinea che, per garantire una rivalutazione anche solo pari a zero, occorre trovare le relative risorse, che non sono ancora state quantificate.
Pensioni, il governo apre il «dossier-Pil». Ministeri al lavoro per scongiurare il rischio di assegni più bassi
Governo al lavoro sul «dossier-Pil», ovvero sul rischio che la lunga crisi con la caduta del Pil possa di fatto determinare il taglio delle pensioni future. Ad aprire ufficialmente il confronto è la richiesta che l’Inps si appresta a inviare ai ministeri del Lavoro e dell’Economia per sapere come applicare il nuovo tasso annuo di capitalizzazione dei contributi, per la prima volta negativo. Ministeri al lavoro contro il rischio di sottrarre soldi al “salvadanaio previdenziale”. «La lettera con la richiesta di pareri ai ministeri sarà inviata lunedì – afferma Tiziano Treu, commissario straordinario dell’Inps, nominato di recente dal governo –. Poi sarà necessario un incontro. L’Inps – aggiunge Treu – può fornire numeri e simulazioni sull’applicazione del tasso annuo di capitalizzazione dei montanti contributivi. Poi però toccherà ai ministeri decidere e, a mio avviso, potrebbe essere necessario anche un intervento legislativo».
Il nodo è quello del tasso di capitalizzazione dei montanti contributivi, calcolato ogni anno dall’Istat sulla variazione media del Pil nel quinquennio precedente: per la prima volta, causa recessione economica, questa percentuale è negativa (-0,1927%) e, senza interventi, produrrà l’effetto paradossale di sottrarre soldi al “salvadanaio previdenziale” dei futuri pensionati italiani (si veda Il Sole 24 Ore del 6 novembre).
La richiesta dell’Inps
L’Inps chiederà dunque ai ministeri vigilanti (Lavoro ed Economia) se dovrà applicare o meno il coefficiente che rischia di “tagliare” le pensioni: nella riforma 335 del 1995, nota come “riforma Dini”, non era stato infatti ipotizzato un Pil negativo. La richiesta di chiarimenti da parte dell’Inps comporterà il «congelamento» dell’applicazione del tasso negativo. E la fase di stand by sarà utile al governo per prendere una decisione.
Due visioni
A quanto risulta al Sole 24 Ore, due visioni si confrontano all’interno dell’Esecutivo: da un lato chi ritiene necessaria una sterilizzazione dell’effetto negativo sugli assegni previdenziali; dall’altro, chi invece pone il problema della copertura finanziaria nel caso venisse annullato il coefficiente di «svalutazione» delle pensioni. Fonti vicine alla Ragioneria dello Stato confermano che la sterilizzazione è possibile, ferma restando la previsione di una copertura finanziaria.
Nel frattempo, il presidente della commissione bicamerale di vigilanza sugli enti previdenziali, Lello Di Gioia (Psi), ha presentato un emendamento alla legge di Stabilità che punta ad annullare le conseguenze del tasso negativo: «Sì, ho presentato l’emendamento per neutralizzare gli effetti nefasti sulle pensioni del tasso negativo calcolato dall’Istat. Spero che martedì il provvedimento superi il test di ammissibilità».
Vecchi pensionati e Casse
Un confronto delicato che interessa tutti i futuri pensionati e non solo quelli che riceveranno l’assegno previdenziale con le regole del contributivo. La riforma Monti-Fornero del 2011 ha infatti stabilito il metodo contributivo pure per coloro che hanno iniziato un’attività lavorativa prima del 1995 in relazione a quanto versato dal 2012. Gli effetti maggiori, però, se il trend dovesse proseguire o comunque mantenersi vicino allo zero, saranno a carico dei più giovani, soggetti integralmente al sistema contributivo.
Inoltre il tasso negativo dovrà essere utilizzato anche dalle Casse previdenziali dei professionisti. Il documento Istat con il calcolo del nuovo coefficiente di rivalutazione è stato inviato anche a loro il 27 ottobre scorso (vedi documenti in pagina). Ma ci sono delle eccezioni. Alcuni enti previdenziali hanno, infatti, scelto di agganciare la rivalutazione delle pensioni dei propri iscritti a indici differenti: è il caso degli agrotecnici che, nonostante un Pil negativo, garantiscono un rendimento minimo dell’1,5 per cento; inizialmente agli agrotecnici era stata negata tale possibilità ma il Consiglio di Stato, nel luglio scorso, gli ha dato ragione vista la sostenibilità a 50 anni e i conti in ordine. Hanno chiesto di cambiare gli indici di riferimento, in successione, i consulenti del lavoro (Enpacl) e gli ingegneri (Inarcassa): sono in attesa di un via libera dai ministeri vigilanti, Lavoro ed Economia.
Il rimedio? Tasso di sostituzione al 60%
Un Ddl del Pd in Parlamento prevede che con due anni di Pil negativo si consideri l’ultimo quinquennio con valori positivi
Del fatto che l’indice di rivalutazione del montante contributivo potesse diventare negativo erano consapevoli gli addetti ai lavori. Infatti anche se si chiama indice di rivalutazione, la sua modalità di calcolo non prevede un meccanismo di salvaguardia che scatti qualora la media quinquennale della variazione del prodotto interno lordo dia un risultato sotto lo zero.
Ma anche il Parlamento, o almeno una parte di esso, ha ben presente il problema, e non da ieri. Il 17 febbraio di quest’anno è stato presentato alla Camera un disegno di legge (proponenti l’ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano, e come prima firmataria Maria Luisa Gnecchi del Pd) in cui si indica una soluzione per evitare l’applicazione di un tasso negativo.
Nel dettaglio il disegno prevede che, a fronte di un valore negativo del Pil nominale per due annualità consecutive, «il governo è autorizzato a procedere» utilizzando come periodo utile per il calcolo dell’indice di rivalutazione non il quinquennio immediatamente precedente l’anno di riferimento (come previsto oggi dalla legge) ma «il quinquennio antecedente le annualità di crescita negativa del Pil». Una sorta di “congelamento” delle ultime condizioni economiche di miglior favore in attesa che il prodotto interno lordo ricominci a crescere e per garantire, nel frattempo, la rivalutazione di quanto accumulato.
Il problema di aver agganciato la rivalutazione del montante contributivo all’andamento del Pil si incrocia con un altro aspetto del sistema contributivo, cioè i coefficienti di trasformazione che vengono utilizzati per determinare l’importo dell’assegno mensile della pensione proprio a partire dal montante e tenendo conto dell’età del lavoratore al pensionamento. L’incrocio tra montante e coefficiente è stato studiato per mantenere in equilibrio il sistema garantendo una proporzione tra quanto si è versato e quanto si riscuoterà una volta terminato di lavorare. Tuttavia il bilanciamento dei conti non garantisce automaticamente l’adeguatezza dei trattamenti. Con la legge 247/2007 era stata quindi prevista la possibilità di intervenire su più fattori, anche con politiche attive, al fine di raggiungere un tasso di sostituzione netto (il rapporto tra ultima retribuzione e primo assegno pensionistico) di almeno il 60% per i lavoratori dipendenti. Le stime più recenti, pubblicate quest’estate dalla Ragioneria generale dello Stato, si collocano sopra tale soglia, ma con una variazione media del Pil dell’1,5% sul lungo periodo. Uno scenario lontano dalla situazione attuale.
Opportuno rivedere i criteri per il calcolo
Sandro Gronchi. Negli schemi a capitalizzazione di secondo pilastro (previdenza complementare) gli individui sono autosufficienti nel senso che la loro pensione si configura come la restituzione dei contributi versati al lordo dei rendimenti fruttati dalle attività finanziarie in cui sono rimasti investiti. In forza di ciò, la capitalizzazione è immune dal “fallimento”.
Gli schemi a ripartizione di primo pilastro (previdenza obbligatoria) si fondano, invece, su un patto intergenerazionale che impegna Enea a portare sulle spalle Anchise. Più precisamente, i contributi versati da ogni generazione devono finanziare le pensioni della precedente. Il rischio di fallimento incombe ogni volta che la spesa sorpassa il gettito. I governi sono allora chiamati a manovre di riequilibrio, non sempre adeguate perché politicamente costose, che abbattono la spesa e/o inaspriscono la contribuzione.
Il cosiddetto sistema contributivo, che l’Italia fece la scelta di sperimentare nel 1995, è una modalità della ripartizione con ambiziosi obiettivi, fra i quali quello di garantire il pareggio di bilancio in via “automatica”. Il sistema simula la capitalizzazione commisurando la pensione ai contributi versati. Come la capitalizzazione autentica, così quella virtuale prevede che i contributi siano remunerati.
Dalla scelta del rendimento dipende la generosità dei montanti contributivi e quindi delle pensioni da essi generate. La teoria economica ha dimostrato che le pensioni contributive assommano a una spesa tendenzialmente uguale al gettito, a condizione che il rendimento sia scelto uguale al tasso di crescita dei redditi da lavoro. La diversa scelta del legislatore del 1995, che optò per il tasso di crescita del Pil, è legittima a condizione che restino costanti le quote distributive, e quindi l’incidenza percentuale dei redditi da lavoro sullo stesso Pil. L’evidenza empirica non sembra avvalorare tale ipotesi.
A parte questo, i cicli economici destabilizzano la crescita del Pil (ma anche dei redditi da lavoro) producendo un rendimento altalenante. La sostenibilità tendenziale non è alterata se il trend viene “ripulito” dal ciclo, cioè il rendimento è assunto uguale alla crescita tendenziale del Pil anziché annua.
Proprio questa fu la scelta del legislatore nel 1995 che assunse un rendimento uguale alla crescita media del Pil nell’ultimo quinquennio. Tuttavia, in presenza di fasi depressive prolungate, il quinquennio rischia di non bastare, come dimostra la notizia, in realtà attesa, che è moderatamente negativo (0,1927%) il rendimento del 2014, deputato a rivalutare, al prossimo 31 dicembre, i montanti contributivi in essere un anno prima.
Bene farebbe il legislatore a reagire prontamente trasformando l’attuale rendimento quinquennale in uno decennale, cioè assumendo, quale rendimento sostenibile, la crescita media del Pil nell’ultimo decennio.
Una serie di elaborazioni statistiche mostrano che il rendimento decennale resterebbe positivo (1,5119%) anche nel 2014, in realtà superando quello quinquennale fin dal 1997.
Lo stesso lavoro di elaborazione presenta altri motivi di interesse. Infatti, mostra che, nel periodo dal 2000 al 2013, il rendimento offerto dal primo pilastro è stato non solo più stabile di quello offerto dal secondo ma anche mediamente superiore. Cumulativamente, ha raggiunto il 75,53% contro il 48,80 per cento.
Il Sole 24 Ore – 8 e 9 novembre 2014