Quando Renato Bandera, un pensionato appassionato di fossili che ama perlustrare in canoa il Po, trovò due anni fa quell’osso lungo poco più di venti centimetri, ebbe il timore che fosse di un essere umano. Lo portò lo stesso al Museo paleo-antropologico di San Daniele Po, nel Cremonese. «Quando abbiamo aperto il cartoccio nel quale era avvolto abbiamo invece intuito che poteva essere la tibia di un felino» racconta Davide Persico, ricercatore (precario) paleontologo all’Università di Parma e fondatore del museo quasi vent’anni fa, subito dopo la laurea. Per avere certezze su quel fossile riaffiorato dalle sabbie del fiume, si è rivolto a Martin Sabol, dell’università di Bratislava, uno dei massimi esperti in Europa. Il risultato della loro ricerca è uno studio pubblicato adesso sulla rivista Quaternary international . «Quel reperto è assolutamente compatibile con la specie panthera pardus — spiega Persico —. Per la prima volta resti di leopardo vengono identificati nella Pianura Padana, finora erano stati rinvenuti solo sulle Alpi e sugli Appennini. Appartenevano a un esemplare del tutto simile a quelli che vivono in Africa». Doveva essere bestia piuttosto grande, circa due metri dal capo alla coda, intorno ai 45 chili, un giovane maschio o una grande femmina.
Se fossimo capitati nelle terre del Po intorno a 200 mila anni fa, in pieno Pleistocene, ci sarebbe sembrata una savana. «Per l’esattezza, i fossili documentano l’alternanza tra i periodi caldi e quelli più freddi — spiega Cristiano Dal Sasso, paleontologo dei vertebrati del Museo di storia naturale di Milano —. C’erano rinoceronti, ippopotami, elefanti e cervi giganti dalle grandi corna nell’era interglaciale caratterizzata da un clima temperato. Con l’inizio della glaciazione arrivarono mammiferi adatti agli ambienti della steppa e della tundra, come l’alce, il bisonte o il mammut lanoso».
L’ultima scoperta non sorprende Dal Sasso. «La mia tesi di laurea, 26 anni fa, era proprio sui reperti restituiti dai sedimenti del Po. La domanda era come mai si ritrovavano pochissimi carnivori e quasi tutti erbivori. Ipotizzavo che fosse solo una questione di proporzioni, i predatori sono sempre in numero inferiore rispetto alle prede, ma dovevano esserci stati anche loro. Il ritrovamento del fossile di leopardo ne è la conferma». Dal museo di San Daniele Po, diventato negli anni la più ampia collezione di fossili del Grande fiume, quasi 30 mila pezzi, promettono altre scoperte. «Stiamo concludendo una ricerca sui resti di iena maculata — aggiunge Persico —. E non escludo che in futuro si possano trovare anche testimonianze della presenza di leoni».
Le grandi piene, quelle che tengono in ansia le popolazioni lungo le rive, sono miniere per i paleontologi. Chi abita in quelle zone è talmente abituato a trovare vecchie ossa che spesso non gli dà troppa importanza. Un femore di mammut è rimasto per trent’anni in una soffitta di Spinadesco, il cranio enorme di un bisonte è stato appeso alla parete di una baracca in riva al Po per un ventennio. Adesso nel museo fanno compagnia a un cranio dell’uomo di Neanderthal. E alla tibia del leopardo, trovata da un pensionato. (fonte)
Riccardo Bruno Il Corriere della Sera – 23 marzo 2017