Pensioni sempre più magre. Almeno per chi lascerà il lavoro da qui ai prossimi 25-30 anni. Con una riduzione più marcata dell’assegno per i lavoratori autonomi e, più in generale, per chi cesserà l’attività con i requisiti pensionistici minimi. È questa la sintesi delle indicazioni che emergono dall’ultimo rapporto della Ragioneria generale dello Stato sulle tendenze del sistema previdenziale. Con una crescita del Pil annuale dell’1,5%, tra il 2030 e il 2040 si nota, in particolare per i dipendenti, il calo del tasso di sostituzione – vale a dire l’importo della pensione rispetto all’ultimo stipendio – dovuto al passaggio dal pensionamento di vecchiaia del regime misto a quello anticipato del regime contributivo: dopo un primo scalino sensibile rispetto alla situazione attuale che avverrà nel 2020, successivamente il primo assegno passerà dal 77 al 71% della retribuzione.
La Pa «aspetta» 250mila uscite. L’ondata di cessazioni aumenta i rischi per i conti ex Inpdap
di Gianni Trovati. La «staffetta generazionale» avviata con il decreto sulla Pubblica amministrazione è indispensabile per dare fiato agli uffici e ringiovanire gli organici, ma darà un’altra botta ai conti della gestione ex Inpdap che sono già intensamente colorati di rosso. Un effetto inevitabile, che il parziale allentamento dei vincoli al turn over ammorbidirà un poco ma certo non riuscirà a risolvere. Da gestire, infatti, ci sono circa 250mila uscite nei prossimi quattro anni per raggiunti limiti di età o anzianità di servizio, a cui si aggiunge la normale dinamica delle cessazioni per altre cause. La prospettiva emerge chiara dai numeri di Aran e Ragioneria generale sulla struttura attuale del personale pubblico, e dai bilanci dell’Inps sul gioco fra entrate e uscite nella previdenza destinata a chi esce da un ufficio statale o di un ente locale.
I primi parlano dell’invecchiamento progressivo della popolazione delle Pubbliche amministrazioni, che dal 2001 al 2012 ha visto crescere la propria età media di quattro anni e mezzo, con un’accelerazione partita nel 2008 quando la crisi di finanza pubblica ha infittito gli ostacoli all’ingresso di nuovo personale. Il risultato, ovvio, è l’affollarsi delle classi di età e di anzianità di servizio ormai prossime all’uscita.
Da questo punto di vista, il decreto sulla Pubblica amministrazione approvato dal Governo e ora all’esame della Camera cancella la possibilità di chiedere il «trattenimento in servizio», cioè i tempi supplementari che potevano mantenere in ufficio il personale dopo aver raggiunto i requisiti previdenziali. La regola, in realtà, è tutt’altro che rivoluzionaria, perché i limiti progressivi al turn over (un trattenimento in servizio in un ente locale, per esempio, andava conteggiato come nuova assunzione) e le tante incertezze previdenziali hanno ridotto i numeri di chi chiedeva di rimandare la pensione. La stessa relazione tecnica al provvedimento spiega che i trattenimenti nel 2012 erano circa 1.200, la metà dei quali però si concentra nel comparto della magistratura che incontra nello stesso decreto regole un po’ più flessibili. Già questa nuova norma, che impone l’uscita dalla Pubblica amministrazione quando si raggiungono i requisiti per la pensione di vecchiaia (66 anni e tre mesi con i parametri attuali) o di anzianità (42 anni e tre mesi di anzianità per gli uomini, 41 anni e tre mesi per le donne), determina però nuovi costi, dai 110 milioni del 2015 ai 216 stimati nel 2018: a fronte di risparmi modesti nelle uscite per i redditi (10 milioni nel 2015, 44 nel 2018), aumentano le uscite per pensioni e, in modo progressivo per il meccanismo della liquidazione a rate (si veda l’articolo a destra), quelle per i trattamenti di fine servizio, che costeranno 48 milioni nel 2015 e 139 nel 2018.
I grandi numeri, però, arrivano dalle dinamiche ordinarie, e non sono stimati nel decreto perché da questo punto di vista la sua approvazione è del tutto ininfluente. Nelle Pubbliche amministrazioni, esclusa la magistratura e i docenti universitari, 250mila persone avevano già compiuto 60 anni a fine 2012, e quindi sono destinate ad andare in pensione entro il 2018. A queste si potrà aggiungere una quota di dipendenti che, anche se più giovani, hanno debuttato presto nel mondo del lavoro, e quindi raggiungeranno l’anzianità massima nello stesso periodo.
L’ondata di uscite, però, arriva mentre i conti dell’ex Inpdap, confluito a inizio 2012 nell’Inps, già soffrono parecchio. Il preventivo 2014 parla di una «gestione caratteristica», cioè quella che in pratica mette a confronto le entrate contributive e le spese per prestazioni, in disavanzo per 11,6 miliardi di euro. Rispetto a due anni fa, il rosso è quasi raddoppiato, sotto la spinta di spese per prestazioni in costante aumento e soprattutto da entrate contributive in netta flessione: nel 2012 l’Inpdap aveva raccolto 57,7 miliardi di euro, mentre quest’anno la stessa voce si ferma a 53,1 miliardi, cioè il 7,9% in meno.
Sul problema dei conti Inpdap è intervenuta anche l’ultima legge di stabilità, che ha chiuso il vecchio “buco” aperto dalle anticipazioni di liquidità usate dopo il 2007 per pagare le pensioni e iscritte nei bilanci come indebitamento. Sanato il problema contabile, però, rimane quello strutturale, creato dalla forbice che si apre sempre di più fra le uscite che aumentano e le entrate che diminuiscono. Nel gioco dell’oca dei conti pubblici, per chiuderla bisogna aprire le porte alle nuove assunzioni, ma così ovviamente aumenta la spesa di personale della Pubblica amministrazione. Proprio per questo anche il decreto che avvia la “staffetta generazionale” va con i piedi di piombo. Calcolando il rapporto fra cessazioni e nuove entrate solo in base alla spesa, e non più alle «unità di personale», si allargano un po’ gli spazi, ma il turn over al 100% è in calendario solo per il 2018: e tutte le manovre recenti dicono che l’appuntamento è in genere destinato a slittare.
Ai pensionati assegni meno ricchi. I tassi di sostituzione sono destinati a calare anche bruscamente, soprattutto per gli autonomi
Due-tre anni di età in più nel 2050-2060 consentiranno di alzare il tasso di sostituzione netto anche di dieci punti percentuali. È uno degli effetti del sistema contributivo con cui si calcolerà l’importo dell’assegno previdenziale dei 25-35enni di oggi.
Lo sforzo, però, si dovrà compiere alla soglia dei 70 anni e quindi sarà da verificare quanti avranno la voglia, le forze, la possibilità di continuare a lavorare a quell’età anche se l’aspettativa di vita sarà di oltre 86 anni per gli uomini e di 91 per le donne. Non a caso la Ragioneria generale dello Stato nel suo rapporto 2014 sulle tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario tende alla prudenza e ha elaborato le previsioni per l’ipotesi base considerando che gli italiani scelgano, potendo, di andare in pensione con i requisiti minimi o il pensionamento anticipato.
Partendo da queste premesse e con una crescita annuale del Pil nel periodo pari a poco meno dell’1,5%, il tasso di sostituzione netto per un dipendente che nel 2050 incasserà il primo assegno previdenziale sarà del 73,1%, con 38 anni di contributi, quota che nel 2060 salirà al 73,6 per cento. Un autonomo (artigiano) senza coniuge a carico potrà contare rispettivamente sul 72,8 e sul 73,7 per cento. Se, però, il dipendente se la sentisse di lavorare altri tre anni per andare in pensione con la vecchiaia (nel 2050, 70 anni di età e 40 di contributi) vedrebbe il tasso di sostituzione netto schizzare a quota 83,1 oppure a 85,5 nel 2060, contro il 78,2 del 2010.
Per l’autonomo, invece, i 70 sarebbero un traguardo obbligato, ma con un paio di anni di contributi in più (se ha iniziato a lavorare prima o non ha avuto “buchi” nei versamenti) vedrebbe il tasso di sostituzione salire anche di cinque punti percentuali. Non male, ma nulla in confronto ai suoi predecessori che sono andati in pensione nel 2010 e hanno potuto contare sul 90% dell’ultimo assegno.
Le elaborazioni effettuate dalla Ragioneria generale dello Stato evidenziano che l’importo delle pensioni future sarà influenzato più dall’età del pensionamento – per effetto del coefficiente di trasformazione – che dagli anni di contribuzione. Non che questi ultimi non incidano, ma ritirarsi dal lavoro più tardi a parità di contributi garantisce un “premio” migliore. La soglia dei 70 anni costituisce un punto di riferimento anche per capire una delle conseguenze del quadro normativo oggi esistente, combinato con l’andamento demografico: oggi i pensionati residenti in Italia sono circa il 150% rispetto a chi ha almeno 70 anni; nel 2060 saranno poco più del 105 per cento. Come dire che quasi nessuno incasserà l’assegno prima di aver raggiunto tale età.
Accorciando l’orizzonte temporale, e con riferimento all’ipotesi base, tra il 2030 e il 2040 si nota, in particolare per i dipendenti, il calo del tasso di sostituzione dovuto al passaggio dal pensionamento di vecchiaia del regime misto a quello anticipato del regime contributivo: dopo un primo scalino sensibile rispetto alla situazione attuale che avverrà nel 2020, successivamente il primo assegno passerà dal 77 al 71% della retribuzione. Per gli autonomi, invece, il vero salto verso il basso si verificherà nei prossimi sei anni con il tasso di sostituzione netto che passerà dal 96 al 74,1 per cento per poi scendere ulteriormente fino al 67 nel 2035.
La differenza sostanziale tra autonomi e privati nel lungo periodo è che i primi potranno garantirsi tassi di sostituzione vicini a quelli attuali ritardando il pensionamento o superando i 45 anni di contribuzione, mentre gli autonomi nelle ipotesi più favorevoli (e comunque superando i 40 anni di contributi) rimarranno sotto di dieci punti percentuali.
L’importo dell’assegno, poi, oltre che dall’età di pensionamento è legato ad almeno altri due parametri importanti: l’andamento delle retribuzioni e quello del Pil. Come evidenziato da uno studio presentato al congresso nazionale degli attuari già l’anno scorso, se il Pil crescesse dell’1% invece dell’1,5%, per esempio, il tasso di sostituzione nel 2050 si ridurrebbe di sei punti percentuali.
Passando dalle previsioni sull’assegno a quelle di carattere più generale, si prevede per il periodo 2014-2029 una diminuzione del rapporto fra spesa pensionistica e Prodotto interno lordo, dopo i picchi raggiunti nel 2013 (16,3 per cento). L’inversione di tendenza si spiega con l’aumento dei requisiti minimi di accesso al pensionamento e all’applicazione pro rata del sistema contributivo, nonché dall’ipotizzata ripresa della crescita economica. Di conseguenza nel 2029 il rapporto spesa/Pil dovrebbe attestarsi al 15 per cento.
Nei quindici anni seguenti, però, ci sarà un nuovo cambio di direzione causato dall’innalzamento della speranza di vita e dal pensionamento di una generazione particolarmente numerosa, fattori che nel 2044 riporteranno il rapporto al 15,7 per cento. Ulteriore cambio di tendenza negli anni a seguire (15,2% nel 2050 e 13,9% nel 2060) quale effetto dell’applicazione estensiva del regime contributivo nonché dell’adeguamento alla speranza di vita dei requisiti per il pensionamento.
La ripresa economica attesa per i prossimi anni sarà comunque determinante perché l’andamento incide sulla rivalutazione delle pensioni, che è legata al Pil. Come già sottolineato da più fonti, il perdurare della fase di difficoltà rischia di incidere sul sistema.
I risultati delle elaborazioni condotte dalla Ragioneria quest’anno si differenziano da quelle dell’anno scorso anche perché per il primo triennio ha ipotizzato un tasso di crescita annuale del Pil dell’1,2% rispetto all’1,5% utilizzato in precedenza.
Per la liquidazione il requisito decide il valore delle rate. Per chi ha raggiunto i parametri di uscita dopo il 1?gennaio le tranche scendono a 50mila euro
Se in materia di pensioni il quadro non è roseo, per quanto riguarda la liquidazione dei dipendenti pubblici non si può sicuramente affermare che la situazione sia idilliaca. È pur vero che la riforma della Pa di Renzi non è intervenuta in argomento, ma non è necessario risalire alla notte dei tempi per individuare l’ultima modifica alla norma: basta fermarsi alla legge di stabilità 2014. Sono i commi 484 e 485 dell’art. 1 della legge 147/13 che rimodulano la scansione del pagamento del Tfs/Tfr, arrivando al risultato che il dipendente percepisce quanto a lui dovuto più avanti nel tempo. In pratica, è stato fissato uno spartiacque fra i soggetti che hanno maturato un diritto a pensione fino al 2013 e quelli che lo maturano dal 2014. Anche se cessano dal servizio quest’anno o negli anni a venire, la prima categoria di dipendenti pubblici (diritto acquisito al 31/12/2013) riceve il Tfs/Tfr in un’unica soluzione solo se l’importo non supera i 90mila euro. Nel caso sia maggiore, ma pari o inferiore a 150mila euro, la corresponsione avviene in due rate: la prima di 90mila e, dopo un anno, la seconda per la differenza. Per le liquidazioni più generose, che superano i 150mila euro, le rate, pagate a distanza di un anno l’una dall’altra, sono tre: la prima di 90mila, la seconda di 60mila e la terza per la differenza. Con la legge di stabilità 2014, per i soggetti che maturano il diritto a pensione da tale anno, le soglie dei 90mila e dei 150mila euro sono rideterminate in 50mila e 100mila euro.
A questo panorama si sommano i termini di pagamento che dipendono dalla causa di risoluzione del rapporto di lavoro. Così solo in caso di decesso e di inabilità il Tfs/Tfr viene pagato entro 105 giorni, mentre per il raggiungimento dei limiti di età o di quelli di servizio, l’attesa si allunga a 12 mesi. Quest’ultimo termine è anch’esso frutto di una modifica normativa introdotta dalla legge 147/13, in precedenza era fissato in 6 mesi. Anche in questo caso, la nuova disposizione si applica ai soggetti che maturano il diritto a pensione dal 2014.
Parimenti si vede corrisposta la liquidazione entro 12 mesi il dipendente con contratto a tempo determinato per il quale viene a scadere il termine e il lavoratore per il quale l’amministrazione dispone la risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro. Per tutti gli altri soggetti, il Tfs/Tfr viene corrisposto dopo 24 mesi dalla cessazione. Ad esempio, il dipendente pubblico che accede alla pensione anticipata nel 2014, avendone maturato il diritto nello stesso anno, al quale spetti un Tfs di 120mila euro, si vedrà pagata la prima rata di 50mila fra due anni, la seconda rata, di pari importo, fra tre anni e gli ultimi 20mila fra quattro anni. Il tutto a interessi zero. La differenza con il settore privato è abissale: il Codice civile (art. 2120) impone al datore di lavoro il pagamento del tfr al momento della cessazione. Con buona pace della parità di trattamento garantita costituzionalmente.
La contromossa: più spazio al secondo pilastro
La soluzione è a portata di mano ma, di fatto, non ha l’attrattività utile perché venga accolta da tutti coloro che ne avrebbero bisogno. I fondi pensione italiani offrono ai lavoratori l’opportunità di supportare le proprie rendite pensionistiche di primo pilastro con “pensioni di scorta” o di secondo pilastro, in grado di produrre un supporto tale da avvicinare i vitalizi futuri ai livelli ottenuti da coloro i quali sono andati in pensione nel recente passato. L’impiegato quarantenne con 15 anni di contribuzione va incontro a una pensione pubblica pari al 67% dell’ultimo stipendio (tasso di sostituzione); ma in caso di adesione a un fondo pensione con Tfr e contributo volontario pari all’1% del proprio reddito (oltre a quello datoriale), può far salire il tasso all’80%. Di fatto, però, questa soluzione è rimasta appannaggio di un numero insufficiente di lavoratori: le adesioni alla previdenza complementare restano limitate (vedi tabella in pagina) e anzi si riducono in molti settori produttivi, con la crisi che toglie risorse economiche e prospettive future ai lavoratori, schiacciati spesso dalle necessità del presente che li spingono a interrompere la contribuzione in essere (vedi tabella a fianco) o a richiedere anticipazioni al fondo; smontando così la propria strategia previdenziale. Come sottolineato da più parti, sono proprio coloro che avrebbero più bisogno di un secondo pilastro previdenziale – i giovani e le donne, per esempio – a mostrare i tassi di partecipazione più bassi.
Il tema del rilancio delle adesioni è individuale e anche sociale, visto che prive di uno strumento previdenziale complementare ed esposte al «fai-date» (immobili o altre forme), ampie fette della popolazione vanno incontro a un futuro fatto di prestazioni inadeguate e indigenza. Al primo posto tra le soluzioni indicate c’è il rinnovo di una operazione comunicativa, una fase di silenzio/assenso analoga e auspicabilmente più efficace di quella messa in campo nel 2007, in occasione dell’introduzione della 252/2005. Ma una leva la offre il decreto “salva Italia”, che offre la possibilità di un parziale opt out contributivo dal primo al secondo pilastro, dirottando cioè una quota dei versamenti ai più redditizi fondi pensione; una mossa che presenta inevitabili controindicazioni per la sostenibilità del primo pilastro, in caso di successo. Lo stesso presidente di Mefop, Mauro Marè, nel corso di una recente audizione ha sottolineato l’opportunità di introdurre forme di automatic enrollment con opzione di exit entro un determinato periodo, da sposare con le opzioni offerte da una migliore diversificazione contributiva nel primo e nel secondo pilastro.
Alcuni contesti specifici hanno offerto soluzioni diverse: il recente rinnovo del contratto degli edili prevede dal 2015 il versamento di 8 euro nelle posizioni di tutti i lavoratori, a prescindere dalla loro adesione al fondo di categoria (Prevedi); una soluzione che è stata resa praticabile dalla possibilità degli edili di aderire al fondo anche senza il Tfr, in deroga alla norma, vista la specificità del settore produttivo caratterizzato da forte mobilità. Un vantaggio sia per l’azienda, che paga sugli 8 euro al fondo un contributo aggiuntivo del 10% invece del 30% in busta paga, sia per il lavoratore, che potrà dedurre fiscalmente il versamento invece di vederlo defalcato dall’aliquota marginale.
Il Sole 24 Ore – 7 luglio 2014