Riforma pensioni, tris di interventi sul tavolo del Governo. Col contributivo importo tagliato in media di un terzo
La soluzione del rebus pensioni potrebbe richiedere più tempo del previsto. Nonostante la fuga in avanti del ministro del Lavoro, Giuliano Poletti – che in un’intervista al Corriere della sera di domenica si è dichiarato «favorevole a un intervento sulle pensioni alte a sostegno di quei lavoratori che altrimenti rischiano di essere esodati» – la trattativa all’interno del Governo non è ancora partita. Come confermato ieri dal viceministro all’Economia, Enrico Morando, che ha addirittura escluso un intervento in materia previdenziale e ha invitato a «concentrarsi sulle vere riforme che servono al paese: lavoro, giustizia, pubblica amministrazione, fisco». A ogni modo, al momento le ipotesi sul tavolo sembrano almeno tre. E l’una non per forza esclude l’altra. Anzi.
E cioè: contributo di solidarietà sugli assegni oltre una certa soglia; ricalcolo con contributivo pieno dei trattamenti misti già in pagamento; prestito pensionistico sulla falsariga della “proposta Giovannini”. E l’una non per forza esclude l’altra. Anzi.
Partiamo dal contributo di solidarietà che è una delle due soluzioni citate esplicitamente da Poletti. In realtà, un prelievo forzoso sugli assegni più elevati già esiste. Ed è quello introdotto, con la legge di stabilità 2014, dall’esecutivo Letta per le pensioni oltre i 90mila euro lordi, dopo la bocciatura della Consulta per una misura simile voluta da Giulio Tremonti e Silvio Berlusconi nel 2011 e confermata da Mario Monti. Attualmente, infatti, chi percepisce tra 14 e 20 volte il trattamento minimo Inps (cioè tra 7 e 10mila euro lordi mensili) deve rinunciare al 6% dell’importo, che sale al 12% per chi si assesta tra 20 e 30 volte il minimo (pari a 14.800 euro) e al 18% per chi supera tale soglia.
Ora il governo Renzi potrebbe decidere di rendere l’intervento meno simbolico e più redistributivo, abbassando l’asticella fino a 3.000-3.500 euro. Del resto, una proposta in tal senso risale a un anno fa ed è targata Yoram Gutgeld. Il consigliere economico di Renzi pensa infatti a un taglio del 10% e a un blocco dell’indicizzazione per gli assegni oltre i 3.500 euro lordi calcolati secondo il metodo retributivo.
In alternativa si potrebbe pensare a una stretta più generalizzata sui trattamenti già in corso di erogazione e calcolati secondo il metodo retributivo o misto. Come proposto nello studio pubblicato a gennaio su Lavoce.info da Tito Boeri, Fabrizio Patriarca e Stefano Patriarca, che punta a decurtare gli assegni retributivi di un tot rispetto allo scostamento da pensioni analoghe calcolate con il contributivo. Più nel dettaglio, i tre economisti pensano a un contributo pari al 20% dello squilibrio sulle pensioni tra 2 e 3mila euro, al 30% tra 3 e 5 mila euro e al 50% oltre tale livello.
Per passare il vaglio della Consulta, qualunque sia la ricetta adottata, i risparmi prodotti andranno lasciati all’interno del comparto previdenziale. E veniamo così alla terza ipotesi citata all’inizio: utilizzare le risorse recuperate per risolvere una volta per tutte la grana esodati. Magari rispolverando il prestito pensionistico caro all’ex ministro del Lavoro, Enrico Giovannini.
Fermo restando che la sede per decidere sarà la prossima legge di stabilità non è così sicuro che l’esecutivo alla fine decida di rimettere mano alle pensioni. Il clima politico non è così favorevole a un’eventualità del genere. Tanto nella maggioranza, con Cesare Damiano (Pd) che avverte di non scendere sotto la soglia dei 90mila euro annui, Pietro Ichino (Sc) che consiglia di intervenire solo dove ci sono i margini e Nunzia De Girolamo (Ncd) che chiede di non toccarle. Quanto nell’opposizione, con Renato Brunetta (Fi) che sottolinea come neppure la Bce ci inviti a un intervento simile.
CON IL CONTRIBUTIVO IMPORTO TAGLIATO IN MEDIA DI UN TERZO
Il ricalcolo delle pensioni con il metodo contributivo determina in via generale una riduzione dell’assegno, ma in alcuni casi i risultati possono essere diversi da quanto si potrebbe immaginare. L’impressione comune, infatti, è che un’operazione del genere andrebbe a colpire in maniera più significativa le pensioni di livello elevato. In alcuni casi, però, ciò potrebbe non verificarsi. È quanto emerge da una serie di proiezioni elaborate su alcuni casi tipo.
Sono stati presi come riferimento tre dipendenti di sesso maschile iscritti per la prima volta all’Inps nel 1975 e pensionati il 1?gennaio 2011 all’età di 62 anni. Per tutti si è ipotizzato una retribuzione iniziale pari a circa 15.000 euro in valore reale e tre diversi livelli retributivi al pensionamento (30.000, 60.000, 120.000 euro, sempre in valore reale). Sono state inoltre ipotizzate tre diverse modalità di carriera (costante, ritardata, accelerata), in relazione all’evoluzione della retribuzione percepita dal primo all’ultimo livello. Le prestazioni maturate al pensionamento sono state determinate esclusivamente sulla base del metodo retributivo (al 1? gennaio 2011, infatti, la riforma Fornero, che ha introdotto per tutti il sistema contributivo, non era stata ancora emanata).
Successivamente si è proceduto al ricalcolo delle prestazioni con il metodo contributivo, applicando la metodologia stabilita nei confronti dei lavoratori che, nei casi consentiti, hanno la possibilità di optare per la prestazione calcolata sulla base di tale metodo. Dagli esempi emerge chiaramente come l’evoluzione retributiva influenzi in maniera determinante il risultato finale. Al crescere della pensione, infatti, non appare scontato che il ricalcolo determini un importo più contenuto. In taluni casi la riduzione percentuale della pensione maturata è minore per i livelli di prestazione più elevati. Anzi, nel caso di carriera accelerata, il ricalcolo della pensione con il metodo contributivo (non ipotizzando l’applicazione del massimale di retribuzione pensionabile e contributiva stabilito dall’Inps per tutti coloro che per la prima volta sono stati iscritti dal 1?gennaio 1996) determina, per il lavoratore con la massima pensione, una prestazione finale più elevata rispetto a quella calcolata con il metodo retributivo.
L’effetto è principalmente dovuto alle modalità di applicazione stabilite dal metodo retributivo, che definisce, per ciascun anno di contribuzione, un rendimento più contenuto al crescere della retribuzione (il 2,0% si riduce infatti gradualmente sino allo 0,9% per livelli retributivi più elevati). Con il metodo contributivo, invece, l’aliquota riconosciuta nell’anno viene applicata in maniera su tutta la retribuzione, senza alcuna gradualità.
Un ulteriore elemento che influenza il risultato finale è l’età di pensionamento. I risultati contenuti nello schema sono destinati ad evidenziare riduzioni più elevate in caso di pensionamenti anticipati. Viceversa riduzioni più contenute (o incrementi più elevati) in caso di pensionamenti posticipati. (Il Sole 24 Ore)
PENSIONI, UN MILIARDO ALL’ANNO DA QUELLE OLTRE I 3500 EURO NETTI PER AIUTARE ESODATI E CASSINTEGRATI
Nel piano del governo previsto un prelievo sulla differenza tra l’assegno calcolato con il retributivo e quello teorico contributivo
Tagli alle pensioni “d’oro e d’argento” calcolate con il vecchio metodo retributivo. Il governo pensa a un prelievo di solidarietà sulla differenza tra l’assegno pensionistico che si riceve in base alle regole pre riforma Dini (1996) e l’importo teorico che si sarebbe invece maturato applicando il metodo contributivo, quello adottato integralmente per i lavoratori più giovani. Nelle casse previdenziali potrebbe arrivare così un miliardo l’anno destinato a sostenere il reddito di coloro che a pochi anni dalla pensione perdono l’occupazione (gli esodandi) ma anche (almeno fino al suo totale superamento) la cassa integrazione in deroga che oggi garantisce un’indennità soprattutto ai lavoratori delle piccole imprese in crisi. Non è nemmeno escluso che una parte degli introiti possa essere dirottata a rafforzare le pensioni minime. Dipenderà tutto dalle risorse (che potrebbero salire anche a un miliardo e mezzo l’anno) e dunque dall’ampiezza della platea dei lavoratori coinvolti. Prima della pausa estiva i tecnici del ministero dell’Economia hanno ragionato in particolare su un’”asticella” piuttosto bassa fissata intorno ai 50-60 mila euro lordi all’anno di pensione. Più realistico che l’asticella sia messa a un livello superiore: 3.500 euro netti al mese. La decisione sarà tutta politica. Anche se era stato il commissario straordinario per la spending review, Carlo Cottarelli, poco dopo il suo insediamento a dire che sarebbe stato necessario «toccare le pensioni d’oro e d’argento ». Sia raffreddando i meccanismi di perequazione, per quanto sostanzialmente non scattino con la deflazione, sia, appunto, con un contributo di solidarietà, diverso però da quelli introdotti dai governi Berlusconi e Monti, e bocciati dalla Corte costituzionale.
Nessun intervento, invece, sul fronte dell’età pensionabile che resterà quella fissata dalla legge Fornero (67 anni) anche perché un cambio di rotta su questo fronte non verrebbe consentito dai “guardiani” di Bruxelles.
Il pacchetto pensioni che entrerà nella prossima legge di Stabilità (il governo dovrà vararla entro il 20 ottobre) è già stato sottoposto alle simulazioni dei tecnici dell’Inps e della Ragioneria dello Stato. Punta da una parte a eliminare strutturalmente il fenomeno dei cosiddetti esodati, o meglio di coloro che perdono il lavoro in età matura e che rischiano di restare senza pensione e senza stipendio per diversi anni, e, dall’altra, ad introdurre un principio di solidarietà, anche generazionale, nel mondo del lavoro.
Va detto però che all’interno dello stesso esecutivo le posizioni non sono esattamente compatte: al ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, che domenica in un’intervista al Corriere della sera ha confermato le linee di intervento, ha replicato ieri il viceministro dell’Economia, Enrico Morando (Pd): «Il contributo di solidarietà sulle pensioni alte mi sembra un argomento che lascerei per un’altra fase». Tace palazzo Chigi (anche perché è stato Poletti a riaprire la discussione), ma nel passato il premier Matteo Renzi non escluse (lo disse, per esempio, davanti alle telecamere di Porta a Porta) un contributo di solidarietà a carico delle pensioni superiori ai 3.500 euro netti al mese (circa 6 mila lordi) calcolati con il metodo retributivo. Ipotesi, peraltro, sostenuta dal consigliere economico del presidente del Consiglio, e parlamentare del Pd, Yoram Gutgeld nel suo libro “Più uguali più ricchi”. Così l’asticella dei 3.500 euro netti al mese di pensione definita con il metodo retributivo sembra effettivamente quella più realistica.
Ieri con Poletti si è schierato il sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti (Scelta civica) che in Parlamento ha presentato anche una proposta di legge: «Un contributo di solidarietà può e deve essere chiesto sull’eventuale differenza tra il livello di pensione che viene percepito e quello che viceversa spetterebbe sulla base della capitalizzazione dei contributi versati». L’allarme è invece scattato non solo tra i rappresentanti dei dirigenti d’azienda (sono tra quelli che ricevono le pensioni più ricche) ma anche tra i sindacati che vedrebbero penalizzata quella parte significativa dei propri iscritti, scampata alla riforma Dini, che ha maturato l’assegno pensionistico in base alle retribuzioni degli ultimi dieci anni.
Partita aperta sul fronte politico e sindacale con ricadute dirette su quello tecnico. Perché va definito il livello di reddito pensionistico a partire dal quale intervenire, perché va fissata la percentua- le del prelievo. L’Inps ha comunque elaborato un modello in grado di ricalcolare l’importo con il metodo contributivo per i pensionati del settore privato, mentre qualche problema potrebbe sorgere per quelli del pubblico impiego nel quale i contributi nel passato non venivano sostanzialmente versati.
Le risorse saranno utilizzate soprattutto per sostenere il reddito dei lavoratori maturi che a 4 o 5 anni dalla pensione dovessero perdere il posto. Evitando nuovi esodati. Lo schema prevede che a questi lavoratori, che avrebbero difficoltà a trovare una nuova occupazione, vada dopo i due anni di indennità di disoccupazione (l’Aspi), un assegno di circa 750 euro al mese per il periodo necessario a maturare i requisiti per la pensione di vecchiaia. Una volta in pensione il lavoratore restituirebbe a rate quello che è di fatto un anticipo della pensione. Insomma una sorta di prestito previdenziale. La perdita sarebbe intorno al 5-6 per cento dell’assegno mensile. Un’operazione che allo Stato costerebbe circa 500-600 milioni l’anno. E ci sarebbe anche un contributo da parte delle aziende interessate per evitare che in questo modo possano surrettiziamente riemergere i prepensionamenti. Secondo le simulazioni dei tecnici ogni lavoratore in uscita costerebbe alle aziende 12-15 mila euro e i lavoratori interessati potrebbero essere intorno ai 30-40 mila l’anno.
Accanto al contributo di solidarietà è allo studio il raffreddamento dei meccanismi di adeguamento automatico delle pensioni al costo della vita. Questione marginale in questa fase in cui l’inflazione sta andando in territorio negativo, ma che riemergerebbe una volta che l’inflazione dovesse ritornare sul target europeo del 2 per cento. L’ipotesi più probabile è che si introducano delle fasce di reddito meno sensibili alle dinamiche inflazionistiche con il crescere dell’importo.
E nella legge di Stabilità potrebbe infine essere inserito un tetto alle pensioni calcolate pro rata con il metodo contributivo. In mancanza di un limite, infatti, oggi alcune categorie che possono andare in quiescenza con oltre 70 anni di età (dai professori universitari ai magistrati), riescono a maturare un assegno pensionistico pari al 100 per cento, ma anche oltre, dell’ultima retribuzione. (Repubblica)
DAMIANO (PD): “NO A TRATTENUTE INDISCRIMINATE COLPIREBBERO I REDDITI MEDI”
Sembra difficile mettere la parola fine a quello che ormai appare come uno dei tormentoni di agosto, l’ipotesi di abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Però Cesare Damiano (Pd), presidente della commissione Lavoro della Camera dei Deputati, ci prova lo stesso: «L’art.18 non verrà toccato. La battaglia estiva del Ncd si è risolta in un pugno di mosche: sia Renzi che Poletti hanno detto che non è questo l’argomento fondamentale. Anche perché si tratta di un falso problema: le aziende non chiedono di ridurre le tutele dei lavoratori, ma di abbassare il costo del lavoro».
Il nuovo contratto a tutele crescenti, unito ai contratti a termine, potrebbe tradursi in un precariato lungo 6 anni.
«Per le nuove assunzioni si può stabilire che il contratto a tutele crescenti e i contratti a termine siano alternativi: sarà l’imprenditore a scegliere la strada più conveniente. Per chi assume c’è un doppio vantaggio: nella proposta del Pd si parte da una retribuzione del 65% a parità di mansione, e poi si riducono contributi e Irap, se il lavoratore viene confermato, altrimenti il periodo di prova viene considerato un normale contratto a termine, molto più costoso».
L’entrata nel mercato del lavoro per i giovani è difficile anche per la mancanza di un’adeguata rete di agenzie per l’impiego.
«I nostri centri per l’impiego, che trattano il 2/3% delle assunzioni, hanno 9.000 addetti, di cui 2.000 precari. In Germania gli addetti sono 130.000. Vige il passaparola, il sistema è inceppato. Sarebbe già un passo avanti se le risorse della Garanzia Giovani venissero date alle agenzie private o pubbliche solo in presenza di un’offerta di lavoro concreta, oppure agli imprenditori che stabilizzano i lavoratori».
Il possibile intervento della riforma sulle “pensioni d’oro” è già molto contestato. Quale sarà la soglia?
«Potrebbe essere quella individuata dal governo Letta: 90.000 euro lordi. Questa cifra può anche essere la somma di più pensioni percepite. Superata tale soglia si può intervenire con un prelievo sulla parte eccedente, a condizione che le risorse risparmiate vadano o a migliorare le pensioni più basse o a risolvere il problema dei cosiddetti esodati».
Si discute in alternativa di una forma di perequazione tra pensioni con il sistema retributivo e pensioni con il contributivo.
«Sono assolutamente contrario al prelievo indiscriminato sulle pensioni per cifre non meglio precisate, per il solo fatto che sono state definite con il sistema retributivo. C’è il rischio che così si vadano a colpire le pensioni medie, che fanno veramente gola, anche perché dalle pensioni d’oro si ricaverà poco, il loro numero è esiguo. Ci sono altre distorsioni: perché non s’interviene sulla norma introdotta dalla legge Fornero che permette di calcolare contributi oltre le 52 settimane all’anno per 40 anni per chi lavora anche dopo i 65 anni? Così si va oltre il 130% dell’ultimo stipendio »
19 agosto 2014