Con i due decreti su pubblico impiego e valutazione dei dipendenti approvati ieri in Consiglio dei ministri la riforma della pubblica amministrazione entra nel vivo dell’organizzazione del personale dello Stato e degli enti territoriali. I due decreti, varati ieri insieme a quelli su Aci-Pra, vigili del fuoco e forze di polizia mentre slitta ancora quello sui direttori sanitari, passano ora all’esame di Parlamento e Consiglio di Stato e soprattutto devono cercare l’intesa con Regioni ed enti locali. La discussione, insomma, non è chiusa, ma le novità sono a tutto campo, dai concorsi ai premi di produttività, dalla gestione dei precari fino alle regole sui procedimenti disciplinari “accelerati”. Nel menu entra soprattutto la prima modifica all’articolo 18 nella Pa, avviando una parziale armonizzazione con le regole del settore privato. Il testo. La relazione
Il testo uscito dal Cdm, con la formula «salvo intese», mantiene la “tutela reale” della reintegra nella versione pre-Fornero, ma fissa in 24 mesi il limite ai risarcimenti in caso di sentenza favorevole al dipendente
Oggi, invece, oltre al ritorno in ufficio è previsto un rimborso integrale, relativo cioè a tutto il periodo che passa dall’uscita al ritorno nell’ente. In caso di reintegro, poi, nel decreto è prevista la possibilità per l’amministrazione di tentare l’”appello” entro 60 giorni dalla sentenza.
«Il governo prosegue nel suo cammino e lo fa con decisioni molto rilevanti – sottolinea il premier Paolo Gentiloni al termine del Consiglio dei ministri, rivolgendosi sia al dibattito italiano sia «ai nostri amici a Bruxelles» -, ed è chiaro che le operazioni che dobbiamo fare nelle prossime settimane, in particolare con il Def, con la prospettiva che ci aspetta richiedono un’ulteriore accelerazione del ritmo delle riforme». Dopo il primo via libera ai due decreti sul pubblico impiego, ha spiegato invece la ministra per la Pa e la semplificazione Marianna Madia, «sono pronta a fare una direttiva all’Aran e, di fatto, ricominciare un percorso formale per riaprire la stagione contrattuale ferma da diversi anni». La riforma, infatti, serve anche a creare le condizioni per il rinnovo dei contratti, che senza decreti avrebbe dovuto seguire le regole (finora mai applicate) della riforma Brunetta con i parametri rigidi su premi di produttività, rapporto fra legge e contratti e partecipazione sindacale. Il percorso verso il rinnovo, comunque, è ancora lungo, e impone anche la sfida complicata di trovare risorse aggiuntive nella prossima legge di bilancio per arrivare agli aumenti da 85 euro medi promessi dall’accordo fra governo e sindacati del 30 novembre scorso.
I decreti, però, portano un ventaglio ampio di novità di diretto impatto per i dipendenti pubblici; le nuove regole prevedono di modulare i posti da mettere a concorso sulla base dei «fabbisogni di personale», misurati in termini di servizi resi dalle singole amministrazione, e aprono alla possibilità di riconoscere il titolo di dottore di ricerca quale requisito per specifici profili o livelli di inquadramento, valorizzando anche la conoscenza delle lingue nelle selezioni. Una quota di posti sarà riservata a chi negli ultimi 8 anni ha maturato almeno 3 anni di servizio con la Pa. A cambiare sarà anche il capitolo “Lavoro flessibile” nella Pa: viene delineato l’ambito delle collaborazioni ammesse, con l’obiettivo di superare a regime i co.co.co: le amministrazioni potranno invece utilizzare i rapporti a termine (anche in somministrazione).
A essere riscritta è la normativa sui procedimenti disciplinari, e più in generale della responsabilità disciplinare: sono ampliate le ipotesi di licenziamento ed estese le procedure accelerate (sospensione in 48 ore e licenziamento in 30 giorni) a tutti i casi di flagranza. Anche nei procedimenti ordinari, secondo il testo esaminato ieri l’iter dovrà concludersi in 60 giorni e, dato cruciale, i vizi formali non faranno decadere procedimento e sanzione. In tutto questo si inserisce il primo ritocco all’articolo 18 per gli statali: «Il limite di 24 mesi ai risarcimenti – spiega Pietro Ichino, ordinario di diritto del lavoro e senatore Pd – è doppio rispetto a quello previsto dalla legge Fornero. Meglio che nessun limite, ma obiettivamente è un passo indietro».
RETRIBUZIONI. PREMI IN BASE AI RISULTATI DELL’UFFICIO
Addio alle griglie della legge Brunetta, ai contratti nazionali le scelte su performance collettiva e individuale
La riforma della valutazione dei dipendenti pubblici fa uscire di scena le griglie rigide previste nel 2009 dalla legge Brunetta, e affida ai contratti nazionali le nuove regole per distribuire i premi.
L’obiettivo, sempre inseguito e finora mai raggiunto dalle varie regole che si sono succedute negli uffici pubblici, resta quello di evitare che i «premi» di produttività si trasformino nei fatti in una componente fissa della busta paga. Rispetto agli ultimi tentativi, però, c’è un cambio di rotta significativo: la «valutazione delle performance» sarà soprattutto quella «organizzativa», relativa cioè ai risultati ottenuti dall’ufficio nel suo complesso, e sarà quindi meno ancorata alla situazione individuale, come almeno in teoria aveva tentato la riforma del 2009. Le “pagelle”, in pratica, dovranno misurare il livello di organizzazione raggiunto dai diversi uffici pubblici più del contributo che ogni singolo dipendente dà al risultato complessivo. La distribuzione delle risorse fra le due valutazioni, collettiva e individuale, sarà decisa nei contratti nazionali. La “pagella” individuale conterà quando sarà negativa, e ostacolerà l’attribuzione di incarichi e le promozioni.
Quello della «meritocrazia» nel pubblico impiego è stato finora un tema parecchio acceso nel dibattito politico ma piuttosto sterile sul piano dei risultati concreti. Sette anni di congelamento dei contratti nazionali, poi, hanno favorito la tendenza a utilizzare i premi di produttività come una componente più o meno fissa della busta paga, spesso per puntellare livelli retributivi medio-bassi e bloccati dalle norme anti-crisi. Nel 2009 l’allora ministro per la Pa Renato Brunetta aveva provato a superare la stasi con norme draconiane, che imponevano di dedicare alla produttività individuale la «quota prevalente» (quindi almeno il 50%) delle risorse complessive dei trattamenti accessori, vale a dire quelli che si aggiungono allo stipendio base (tabellare). Fatto questo, si prevedeva una sorta di gara fra i dipendenti che avrebbe azzerato i premi per un quarto del personale, giudicato poco produttivo, attenuandoli per il 50% degli organici e gonfiandoli invece per l’ultimo 25%, giudicato più “brillante”. Nessuna di queste regole è mai entrata in vigore, per il blocco della contrattazione ma anche per le difficoltà politiche e tecniche di applicare ai diversi enti pubblici griglie rigide uguali per tutti.
La nuova riforma riparte dagli obiettivi, prevedendone due livelli. Gli obiettivi «generali» saranno indicati dal governo (d’intesa con gli amministratori nel caso di Regioni ed enti locali) e saranno legati alle «priorità strategiche» del Paese (il rispetto dei tempi di pagamento ai fornitori, l’accelerazione delle procedure o l’aumento dei servizi digitali, solo per fare qualche esempio), mentre quelli specifici di ogni amministrazione saranno fissati dai vertici politici e amministrativi dell’ente. Ogni Pa dovrà misurare il grado di soddisfazione dei cittadini e tenerne conto nella valutazione.
I contratti nazionali dovranno garantire la «significativa differenziazione» dei giudizi, a cui dovrà corrispondere una «effettiva diversificazione dei trattamenti economici». Resta l’obbligo di dedicare ai premi, collettivi e individuali, la «quota prevalente» dei trattamenti accessori: un vincolo che in alcuni settori come la sanità o gli enti locali potrebbe imporre di rivedere altre indennità come quelle per i turni.
FOCUS. LE NUOVE NORME SULLE ASSUNZIONI
Precari, concorsi riservati a chi ha tre anni di servizio
Concorsi basati sulla programmazione triennale dei «fabbisogni», con possibilità di spazi aggiuntivi per le amministrazioni dove il costo attuale del personale è più basso, e un piano straordinario nel triennio 2018-2020 con l’obiettivo ambizioso di «superare» il precariato: ai precari “storici”, che vantano almeno tre anni di servizio anche non continuativi negli ultimi otto anni, saranno dedicate assunzioni ad hoc, che però non potranno sforare i tetti generali di spesa di personale e dovranno passare attraverso concorsi riservati per chi non è ancora passato attraverso una selezione: i candidati possibili, secondo le stime del governo, sono circa 50mila.
Per evitare che mentre si tenta di gestire l’arretrato si formi nuovo precariato, poi, la riforma chiude anche nella pubblica amministrazione l’epoca delle collaborazioni coordinate e continuative, e chiede agli uffici pubblici di limitarsi ai contratti a termine, di somministrazione e alle altre forme flessibili previste nel privato: con il vincolo, ribadito e rafforzato, di fare ricorso a questo tipo di contratti solo per esigenze «eccezionali e temporanee», con la responsabilità dirigenziale a carico dei vertici amministrativi che utilizzano come normali lavoratori subordinati i titolari di contratti flessibili. Tutti questi contratti, comunque, resterebbero vietati nelle amministrazioni che devono riassorbire i propri precari con il piano straordinario triennale.
A determinare i posti che ogni amministrazione potrà mettere a concorso sarà la programmazione triennale basata sui «fabbisogni» e non più sui vecchi organici, rispettando ovviamente i limiti di spesa per il personale. Il superamento degli organici si traduce nel fatto pratico che la programmazione potrà essere effettuata «senza alcun vincolo nella distribuzione del personale tra livelli di inquadramento giuridico», per consentire di rivedere il rapporto numerico fra dirigenti e dipendenti sulla base delle esigenze effettive senza essere blindati agli organici storici.
Fino all’ultimo si è discusso sulla possibilità per i concorsi di continuare a individuare, oltre ai vincitori, anche degli «idonei», destinati a subentrare se i vincitori rinunciano al posto. Il problema non è da poco perché le graduatorie attuali hanno creato oltre 150mila «idonei», alimentando aspettative che nemmeno il più ampio piano di assunzioni è in grado di soddisfare. Per limitare il problema, nel testo esaminato ieri dal consiglio dei ministri si prevede la possibilità di individuare idonei per un massimo del 30% dei posti messi a concorso.
Vari strumenti sono poi stati elaborati per consentire più assunzioni alle amministrazioni dove oggi il costo del personale è più leggero. Un parametro possibile è il rapporto fra le spese per gli stipendi e le entrate stabili di ogni ente, mentre per gli enti territoriali è stato ipotizzato un sistema premiale per chi, oltre a tenere basse le spese di personale in rapporto alle entrate, non ha esagerato con il salario accessorio e ha rispettato i vincoli generali di finanza pubblica. Questo sistema, che oltre a spazi più ampi per le assunzioni permetterebbe di alimentare di più i fondi per il salario accessorio, potrebbe essere limitato inizialmente a una sperimentazione triennale, per trasformarsi poi in strutturale se il meccanismo funziona.
Il testo del decreto per la riforma del testo unico sul pubblico impiego
Il Sole 24 Ore – 24 febbraio 2017