Stefano Lepri. Sì, il vento è cambiato, ma quanto questa ripresa avrà fiato è tutto da vedere. Il futuro della nostra economia è stretto da tre cerchi concentrici di pessimismo: 1) È possibile che l’Italia riprenda stabilmente a crescere? 2) Riuscirà l’area euro a sottrarsi al cattivo equilibrio delle sue attuali regole? 3) Sono in grado i Paesi avanzati del mondo di svilupparsi ancora, o tendono a fermarsi?
Il segnale buono giunto ieri dall’Istat per il primo trimestre è confermato anche dai primi numeri disponibili sul mese di aprile. Confortano gli «indici anticipatori» che tentano di guardare più in là, come quello dell’Ocse diffuso ieri l’altro, dove l’Italia in questa fase è perfino messa meglio degli altri grandi Paesi europei. Non ci sono qui divergenze di rilievo tra gli esperti.
Nell’insieme, i fattori favorevoli sono in gran parte esterni: per tutto il pianeta petrolio a buon mercato, per tutta l’area euro l’espansione monetaria attuata dalla Bce e il cambio debole. Tuttavia qualcosa è cambiato anche da noi: le famiglie cominciano a spendere un po’ di più. Le incoraggiano i prezzi fermi o in ribasso, nonostante che le paghe non aumentino e i disoccupati restino tanti.
C’è un ritorno di fiducia, che potrà proseguire nei prossimi mesi. Ma essendo i soldi a disposizione quelli che sono, tanto lontano non potrà andare. Sarà cruciale come le imprese reagiranno: basta produrre un po’ di più con le risorse a disposizione, oppure è ora di ricominciare ad assumere e ad investire? L’export aiuta, però in nessuna parte del mondo la crescita è travolgente.
Il «sistema Italia» aveva cominciato a perder colpi ben prima della crisi mondiale scoppiata nel 2007, anche prima dell’euro a guardar bene. Può ben darsi che la doppia recessione, prima quella del 2008-2009, poi quella del 2011-2012 seguita da due anni di ristagno, l’abbia deteriorato in modo duraturo (la produzione industriale è ancora del 20% inferiore rispetto al 2007).
Quanta della zavorra che ci impacciava sia stato eliminato è opinabile. Lo stesso governo ammette di essere solo all’inizio di un lungo processo di riforma. Se non altro, le cose fatte fin qui riducono il dissenso su quale sia la priorità ora: solo riducendo l’inefficienza delle strutture pubbliche la vitalità economica dell’Italia potrà migliorare in modo significativo.
Anzi no, è l’Europa che ci frena, ribattono alcuni. La commissione Juncker sta rendendo via via più elastica (sebbene in modo poco trasparente) l’interpretazione del troppo severo Patto di stabilità. Purtroppo resta il fondamentale squilibrio di una politica economica della Germania che vista dall’interno appare appropriata, mentre per l’insieme dell’area euro è frenante.
Gli ultimi dati tedeschi sono in controtendenza: inducono a ridimensionare le più ottimistiche previsioni di crescita per quest’anno, certo non oltre il +1,8% su cui conta Angela Merkel, forse meno. Può essere un buono spunto per riflettere sul modello Germania, migliore del nostro ma troppo esposto all’andamento delle esportazioni.
Anche al di là dell’area euro una ricetta garantita per la crescita non ce l’ha nessuno. Se in Gran Bretagna un mercato del lavoro molto flessibile non impedisce che la produttività ristagni (come ha confermato ieri il governatore della Banca d’Inghilterra), e all’opposto in Giappone un prolungato stimolo di bilancio di per sé non assicura la crescita, le certezze ideologiche hanno poco senso.?
La Stampa – 14 maggio 2015