A cura di Paolo Russo, La Stampa. Dai forzieri della sanità spunta a sorpesa un tesoretto, nemmeno troppo «etto», da 3 miliardi di euro. I tecnici del Ministero della Salute stanno completando la ricognizione dei conti e sembra che quest’anno l’asticella possa fermarsi un po’ sopra i 106 miliardi. Almeno tre in meno dei 109,9 fissati per il 2014 dal patto per la salute, siglato meno di due mesi fa da governo e Regioni. Merito della spending review targata Monti, che promette di garantire tutti i 6,4 miliardi di risparmi preventivati per quest’anno, dopo averne fruttati 2,5 nel 2012 e 5,5 nel 2013. Il Patto prevede però che tutti i 10 miliardi di risparmi previsti in tre anni vengano reinvestiti in una sanità dove gli ospedali cadono a pezzi e dove bussano alla porta nuove e costosissime cure.
A Palazzo Chigi continuano ad assicurare: «Nessun taglio alla sanità, ma lotta agli sprechi». Che come in questa pagina mostriamo non sono pochi. Il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, per ora si mostra serena e ai suo tecnici ha ordinato di buttare giù una tabellina da 40-45 milioni di risparmi sul budget del suo ministero. Pochi spiccioli da portare in dote a Matteo Renzi, che ancora deve trovare la quadra sui 20 miliardi di tagli da inserire nella legge di stabilità. E al quale quel tesoretto, se confermato dalla verifica dei conti, potrebbe far comodo.
Dai forzieri della sanità spunta a sorpesa un tesoretto, nemmeno troppo «etto», da 3 miliardi di euro. I tecnici del Ministero della Salute stanno completando la ricognizione dei conti e sembra che quest’anno l’asticella possa fermarsi un po’ sopra i 106 miliardi. Almeno tre in meno dei 109,9 fissati per il 2014 dal patto per la salute, siglato meno di due mesi fa da governo e Regioni. Merito della spending review targata Monti, che promette di garantire tutti i 6,4 miliardi di risparmi preventivati per quest’anno, dopo averne fruttati 2,5 nel 2012 e 5,5 nel 2013. Il Patto prevede però che tutti i 10 miliardi di risparmi previsti in tre anni vengano reinvestiti in una sanità dove gli ospedali cadono a pezzi e dove bussano alla porta nuove e costosissime cure. A Palazzo Chigi continuano ad assicurare: «Nessun taglio alla sanità, ma lotta agli sprechi». Che come in questa pagina mostriamo non sono pochi. Il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, per ora si mostra serena e ai suo tecnici ha ordinato di buttare giù una tabellina da 40-45 milioni di risparmi sul budget del suo ministero. Pochi spiccioli da portare in dote a Matteo Renzi, che ancora deve trovare la quadra sui 20 miliardi di tagli da inserire nella legge di stabilità. E al quale quel tesoretto, se confermato dalla verifica dei conti, potrebbe far comodo.
SPESE IN ECCESSO INGIUSTIFICATE PER 5 MILIARDI
«Centralizzate gli acquisti». Il Patto per la salute da raccomandazione lo trasforma in obbligo. Ma ancora più della metà delle Asl usa il metodo poco economico del «fai da te». «Bisogna però considerare –spiega il presidente della federazione di asl e ospedali (Fiaso), Francesco Ripa di Meana- che per i dispositivi a più alto valore tecnologico non si può perseguire l’obiettivo del prezzo più basso ma bisogna scegliere con il consenso dei professionisti. Fermo restando che si può e si deve ancora intervenire sugli acquisti». Necessità che salta subito all’occhio mettendo a confronto i listini prezzi praticati alle varie Asl, come hanno fatto i tecnici della regione Veneto. Dove gli «steli femorali cementati» costano 187 euro, mentre altrove si comprano a 600, ossia al 530% in più. Il vaccino antipapilloma virus, costa 32 euro alle Asl venete, 47 (il 100% in più) in altre regioni più spendaccione. E l’elenco potrebbe continuare a lungo. Secondo uno studio dell’Ispe, l’Istituto per la promozione dell’etica in sanità, la spesa in eccesso non giustificata sarebbe pari a 5 miliardi e mezzo l’anno. Per lavanderia e pulizia a spendere meno è la Lombardia, con appena 1,3 euro a residente, mentre Abruzzo, Molise, Liguria ed Emilia viaggiano tra i 25 e i 34 euro. Per i servizi di mensa la più virtuosa è la Lombardia, con 1,33 euro a residente, mentre in Molise si balza a 17,20 e in Liguria a 14,48. Per lo smaltimento rifiuti si passa invece dal valore di 0,04 della solita Lombardia ai 4,36 dell’Abruzzo.
PRESCRIZIONI DI PILLOLE INUTILI PER 270 MILIONI
I medici siciliani raccontano di furgoncini, logati con il marchio di una nota casa farmaceutica, che hanno girano in lungo e largo la regione offrendo gratuitamente alle signore già sugli «anta» un test con la Moc per misurare l’osteoporosi. Inutile dire che l’azienda del furgone è la stessa che produce i farmaci che combattono proprio la carenza di calcio nel sangue. E sarà sempre un caso che di quelle pillole le donne siciliane siano grandi divoratrici? Il farma-spreco italiano è tutto qui, nella montagna di farmaci prescritti e usati in modo improprio. Proprio i farmaci contro l’osteoporosi dovrebbero consumarsi più nelle regioni con poco sole, visto che i raggi solari aiutano a fissare il calcio nelle ossa. Invece è tutto il contrario. Il termine di confronto ha una brutta siglia: DDD. Non scaccia le zanzare ma misura la dose media giornaliera ogni mille abitanti. Ebbene in Sicilia il valore è di 18.8 dosi, in Piemonte la metà, 8,6.
Idem per gli anti infiammatori stereoidei, tipo Aulin e Voltaren. Il 46% dei medici li prescrive a carico del servizio pubblico quando non dovrebbe in base alle indicazioni terapeutiche. In più se si consumano troppi antiinfiammatori si aumenta il consumo di gastroprotettori per riparare i danni fatti allo stomaco. Costo stimato dall’Aifa di questo prescrivere a vanvera: 270 milioni. Sperpero che andrebbe moltiplicato per le altre 6 categorie di medicinali ( per ipertensione, osteoporosi, colesterolemia, diabete mellito, broncopolmoniti ostruttive e depressione) dove si replica il fenomeno.
ESAMI E RICOVERI NEL MIRINO: SONO TROPPI QUELLI DA NON FARE
Ci sono le costose risonanze magnetiche prescritte agli ultraottantenni per verificare se il menisco è ancora sano o no, anche se il tempo delle partite a calcetto o dello sci è oramai un ricordo sbiadito. Le sempre care Tac utilizzate anche quando basterebbe una molto più economica e meno invasiva radiografia. E poi una lista di 110 tipologie diverse di ricovero «ad alto indice di inappropriatezza» che il ministero della salute ha già stilato e sottoposto alle regioni. Quanto valga questo capitolo della «sprecopoli» sanitaria nessuno lo sa, ma proprio il ministro della salute, Beatrice Lorezin, ha parlato di 13 miliardi di accertamenti inutili sfornati dalla cosiddetta «medicina difensiva». Quella che spinge i medici a prescrivere quel che non serve per tutelarsi dalla minaccia delle cause sanitarie. Silvia Arcà, dirigente della programmazione allo stesso dicastero, stila invece l’elenco degli interventi per i quali ancora si finisce inutilmente in corsia invece che transitare per day hospital e ambulatori: cataratta, tunnel carpale, tonsillite, diabete senza complicanze, artroscopie, chemio e radioterapie. «Ricoveri inutili che provocano un danno economico, ma anche sanitario visto che l’ambiente ospedaliero trasmette infezioni». Una soluzione al problema potrebbe arrivare dai nuovi Lea, i livelli essenziali di assistenza, che per le prestazioni inappropriate forniranno indicazioni ai medici su quando prescrivere un accertamento o un ricovero e quando no. Per chi farà di testa propria scatteranno i controlli.
REPARTI SOTTOUTILIZZATI SPESSO PERICOLOSI PER GLI STESSI PAZIENTI
Se c’è un caso in sanità dove la lotta agli sprechi va a braccetto con la maggiore sicurezza dei pazienti è quello della chiusura dei raparti ospedalieri sottoutilizzati. Dove i medici facendo poca pratica mettono a rischio anche la salute dei ricoverati, come mostrano nella grande maggioranza dei casi i dati del «piano esiti», redatto dall’Agenas, l’Agenzia per i servizi sanitari regionali. I reparti che girano sotto ritmo sarebbero ancora un migliaio. Un esempio è quello dei punti nascita. Per la sicurezza l’ideale è superare quota mille parti, ma sotto 500 si è a rischio. Il report dell’Agenas dice che restano ancora più di 100 strutture con meno di 500 parti, mentre altre 200 sono sotto la soglia dei mille. Solo in Sicilia 15 ospedali non raggiungono quota 500, e la maternità dell’Ospedale Basilotta di Nicosia, dove due anni fa una donna è morta dopo essere stata sottoposta a cesareo, è ancora li, anche se non vede nascere più di 280 bebè l’anno.
Problemi che si ripetono per gli interventi di chirurgia più complessi. Come il tumore gastrico maligno. Per garantire la sicurezza ai pazienti vanno operati in chirurgie che fanno oltre 20 interventi l’anno. Ma in ben 400 ospedali di interventi se ne fanno meno di 15. All’Umberto I a Roma fino a poco fa sullo stomaco intervenivano 15 primari chirurghi, senza che nessuno dei loro reparti superasse la soglia di sicurezza dei 20 interventi l’anno. Situazioni che si ripetono anche per le cardiochirurgie.
OSPEDALI E TICKET, ECCO I RISPARMI PER LA SANITÀ. TRE MILIARDI IN MENO CON ACQUISTI CENTRALIZZATI
Previsto il passaggio alla Consip e stretta sulle esenzioni: 7 su 10 non pagano
di Lorenzo Salvia, Il Corriere della Sera. Alla fine i famosi 3 miliardi di euro di risparmi che il governo vuole tirare fuori dalla sanità dovrebbero arrivare con una ricetta che prescrive due medicine. La prima è il rafforzamento anche in questo settore della Consip, la società che si occupa degli acquisti della pubblica amministrazione e che, lavorando sui grandi numeri, mediamente garantisce prezzi più vantaggiosi. La seconda è la riforma dei ticket, che dovrebbe mettere un freno alla crescita delle prestazioni gratuite, con la possibile eliminazione delle esenzioni per patologia per le fasce più ricche della popolazione.
Il potenziamento della Consip è un progetto che viene da lontano. Già oggi la società controllata dal ministero dell’Economia presidia una piccola parte della spesa nel settore sanitario, 15 miliardi su una torta che ne vale 110. L’obiettivo è raddoppiare quella fetta per arrivare a 30 miliardi. Ci sono ancora un paio di numeri da tenere a mente per seguire il ragionamento. Dicono le rilevazioni dell’Istat e del ministero dell’Economia che, quando entra in campo la Consip, si risparmia in media il 20% rispetto al sistema fai da te, in cui ogni amministrazione va avanti per conto proprio. Quanto fa il 20% di quei 15 miliardi aggiuntivi? Proprio 3 miliardi. Non è un caso che il numero sia esattamente uguale ai risparmi messi in conto dal governo.
Ma il percorso non è semplice. Oggi passa attraverso la Consip sia un pezzo di spesa sanitaria in senso stretto, medicine e apparecchiature per un totale di 9 miliardi, sia una parte della spesa generica comune al resto della pubblica amministrazione, come la cancelleria o i computer che arrivano a 6 miliardi. Per raddoppiare quella fetta non basta potenziare i meccanismi esistenti come il cosiddetto sistema dinamico d’acquisto, con la Consip che accredita la aziende fornitrici e poi le inserisce in un elenco dal quale gli enti pescano per organizzarsi la propria gara. No, per raggiungere quel numero magico è necessario allargare l’intervento della Consip ad altri settori in cui le Regioni spesso non riescono a procedere con il sistema delle gare. Si tratta dei servizi di pulizia, delle mense, della gestione dei rifiuti ospedalieri e del cosiddetto «lavanolo», il noleggio di divise e biancheria con lavaggio e disinfezione che pesa tantissimo sui bilanci delle asl. È difficile che il nuovo meccanismo produca tutti i suoi effetti già l’anno prossimo, portando per intero la sua dote di 3 miliardi sull’altare della spending review.
Per questo bisognerà prendere anche l’altra medicina, decisamente più amara, e cioè la riforma dei ticket. Non è una sorpresa perché la riscrittura delle regole è prevista proprio dal Patto per la salute, quell’accordo fra Stato e Regioni che i governatori hanno invocato in questi giorni per contrastare il pericolo dei tagli. Dice il patto che entro la fine di novembre una commissione tecnica dovrà presentare la sua proposta. Ma l’impostazione di fondo è ormai nota da tempo. Oggi il 70% delle ricette mediche per esami, visite e altre prestazioni è esente dal ticket, la tassa aggiuntiva che i cittadini pagano per tenere in piedi la sanità pubblica. Una valanga di prestazioni gratuite che tocca il picco nelle Regioni del Mezzogiorno, con l’86% in Campania e l’84% in Calabria.
Nella metà dei casi l’esenzione è legata al basso reddito del paziente, nell’altra metà al tipo di malattia. Ma quando scattano i controlli spesso vengono fuori le magagne. Le verifiche fatte l’anno scorso dalla Guardia di finanza dicono che una volta su due c’era qualcosa che non andava. Il numero delle esenzioni continua a crescere del 4% l’anno. È vero che con la crisi siamo diventati più poveri e molti sono scesi sotto la soglia dell’esenzione minima, oltre ai 9 milioni che ritardano o rinunciano alle cure perché non possono più pagare. Ma è anche vero che, così com’è, il sistema,in parte ancora basato sull’autocertificazione dei redditi, non regge più. Per questo nella riforma del ticket potrebbe essere cancellata l’esenzione per patologia a chi ha un reddito alto. Ma c’è anche un’altra ipotesi allo studio, basata sulle franchigie a carico dei pazienti. In ogni caso sarà utilizzato in maniera più estesa l’Isee, l’indicatore della situazione economica equivalente che pesa l’intero patrimonio della famiglia.
Consip e ticket, dunque. Due medicine che dovrebbero far scendere la spesa e aumentare le entrare di un settore che da solo copre il 15% di tutta le uscite dello Stato al netto degli interessi sul debito. Una voce esplosa all’inizio degli anni Duemila, quando cresceva ad un ritmo da Pil cinese, il 7% l’anno. E che in realtà dal 2011 è scesa un po’, uno zero virgola che però, come certifica la Cote dei conti nell’ultimo rapporto sulla finanza pubblica, «ha dato un contributo importante per il mantenimento dell’indebitamento entro il 3%». L’inversione di tendenza è stata possibile soprattutto per gli interventi sul personale, con il blocco del turn over e degli stipendi di medici e infermieri come per tutti i dipendenti pubblici.
Mentre, almeno per il momento, non sono arrivati grandi risultati dal meccanismo dei costi standard, che nella distribuzione dei fondi nazionali dovrebbe sostituire i parametri di tre Regioni al pericoloso meccanismo della spesa storica, che disincentivava ogni forma di risparmio. In realtà il sistema è ancora misto, a pesare parecchio è il semplice numero degli abitanti per Regione. Ma attenzione: i costi standard riguardano l’hardware della spesa sanitaria, il costo di una giornata di ricovero o di operazione di angioplastica. Non sono i prezzi standard per il software, medicinali e dispositivi. Di questo si occupa la nuova autorità anti corruzione che qualche giorno fa ha pubblicato i risultati di un sondaggio ereditato dalla vecchia Autorità di vigilanza sui lavori pubblici, che divide in tre classi alcuni farmaci, a seconda di quanto è variabile il loro prezzo. Un lavoro che sarà utile proprio per il potenziamento della Consip e per tagliare le spese.
Tenendo a mente un’ultima cosa, però: secondo lo scenario di lungo periodo disegnato pochi mesi fa dalla Ragioneria generale dello Stato, in futuro la spesa sanitaria riprenderà a crescere: se oggi è al 7% del Pil, il prodotto interno lordo, nel 2060 dovrebbe arrivare all’8,3%. A spanne sono 20 miliardi in più. La popolazione invecchia. E almeno per questo non c’è medicina che tenga.
13 settembre 2014