In viale Mazzini cresce il fronte dei contrari. Tensione al Tg3, giovedì un’assemblea. Da Palazzo Chigi, ieri sera, è arrivato un messaggio molto chiaro indirizzato a viale Mazzini: «Sulla Rai e sullo sciopero ha già parlato il presidente del Consiglio, non mi sembra che i suoi interventi abbiamo bisogno di grandi esegesi interpretative. La linea del governo non cambia, non ci faremo dettare l’agenda da nessuno».
Lo ha detto il sottosegretario allo Sviluppo economico con delega alle Comunicazioni, Antonello Giacomelli. Una posizione che non sembra concedere grandi margini di confronto sul nodo dei 150 milioni che la Rai è chiamata a versare allo Stato. E poi ha annunciato la tabella di marcia del governo: «Riforma del canone, anticipazione percorso della concessione, trasformazione e innovazione della Rai sono gli obiettivi da raggiungere entro il 2014. Su questo percorso apriremo un confronto con tutti, perché il servizio pubblico appartiene a tutti, non solo agli addetti ai lavori».
La proclamazione dello sciopero per l’11 giugno ha aperto sicuramente un baratro tra Palazzo Chigi e l’universo della tv pubblica. Ma forse è servito a smuovere le acque e a rendere chiare e trasparenti le posizioni. Infatti l’Usigrai, il sindacato interno dei giornalisti Rai, pensa seriamente a revocare lo sciopero proclamato con le altre sigle sindacali per l’11 giugno. In una nota emessa con la Federazione nazionale della stampa (firmata dai segretari, rispettivamente Vittorio Di Trapani e Franco Siddi) si legge: «I temi del confronto posti dal sottosegretario Antonello Giacomelli, a partire dall’anticipo al 2014 del rinnovo della concessione, sono quelli che avevamo posto noi come centrali per il futuro e il rilancio della Rai. Si tratta di una apertura importante. L’Usigrai convocherà i propri organismi dirigenti per valutare le decisioni da assumere sullo sciopero. I toni del sottosegretario sono sopra le righe. A noi però non interessano le polemiche ma i contenuti».
Le dichiarazioni di Giacomelli sembrano un’ottima occasione per togliere il sindacato da una situazione difficile. Perché cresce il fronte anti-astensione alla Rai. Ieri trentacinque redattori del Tg3 hanno chiesto un’assemblea per discutere dello sciopero proclamato per l’11 giugno, aderendo a una petizione esposta in bacheca. Si era a un passo dall’autoconvocazione (era stata superata la soglia necessaria delle 25 firme). La richiesta era partita al mattino ma solo dopo le 18 il comitato di redazione, l’organismo sindacale, ha deciso di indire un’assemblea per dopodomani, giovedì, alla quale parteciperà anche Vittorio Di Trapani, segretario dell’Usigrai, il sindacato dei giornalisti Rai. Lo sciopero, nei giorni scorsi, aveva provocato grandi malumori e un fitto scambio di opinioni email all’interno del corpo redazionale. Un membro dei tre del comitato di redazione, Rita Cavallo, si è dimessa mentre Valeria Collevecchio e Romolo Sticchi sono rimasti al loro posto. Sono in molti, nell’ex Telekabul, a ritenere quell’arma spuntata e «vecchia». Un’opinione condivisa dal direttore del Tg3, Bianca Berlinguer, e dai suoi vice. Il dissenso è comunque molto diffuso. Dice Marcello Masi, direttore del Tg2: «Oggi la Rai deve recuperare la sintonia con il Paese. E questa sintonia non si recupera con uno sciopero. La politica stessa sta ritrovando una visione comune con la gente e uno sciopero della Rai rischia di essere a dir poco frainteso. Nessuno si sogna di voler difendere privilegi che in realtà non esistono. E siamo i primi a volere una vera, grande riforma. Ma sarebbe falso confondere l’esigenza di una giusta salvaguardia del servizio pubblico da parte dei giornalisti con una resistenza corporativa». Posizione, quella di Masi, che sarebbe condivisa anche da molti suoi redattori.
Ieri Raffaele Bonanni, segretario nazionale della Cisl (una delle sigle che hanno proclamato l’astensione per l’11 giugno) si è rivolto al direttore generale Rai, Luigi Gubitosi: «Bloccare il servizio pubblico radiotelevisivo con uno sciopero di tutto il personale Rai sarebbe solo un errore. Per questo, oltre che al governo, lancio un appello al direttore generale della Rai, Gubitosi, perché convochi subito i sindacati in modo da evitare lo sciopero. Abbiamo tutti il dovere di trovare insieme soluzioni credibili e responsabili»
Corriere della Sera – 3 giugno 2014
Servizio pubblico zavorrato da troppi costi. La tv ha visto il fatturato scendere. Oltre 400 milioni di entrate in meno in soli 5 anni
Tra dirigenti, giornalisti, impiegati, tecnici, coristi e orchestrali la “Grande Rai” conta oltre 11.500 dipendenti, più della somma dei lavoratori di tutti gli altri operatori televisivi operanti in Italia. Tutti i dipendenti di Mediaset, Sky e Telecom Italia Media messi insieme non arrivano a toccare quelli della Rai. Certo la Rai ha una funzione di servizio pubblico che gli altri non hanno, ma basta questo a giustificare tanta elefantiasi?
Solo il costo del lavoro assorbiva nel 2012 (fonte R&S Mediobanca) il 40% di tutti i ricavi. Aggiungi gli altri costi (dalle sedi regionali, all’acquisto dei programmi e così via) e non c’è da stupirsi che la Rai chiuda quasi sempre in perdita. Tra il 2008 e il 2013 la Rai è riuscita a cumulare perdite per 400 milioni.
Troppi costi che finiscono per superare i ricavi tuona, senza successo, ogni anno la Corte dei Conti e su cui poco si è fatto in passato. L’ultima relazione della Corte riferita agli anni 2011-2012 denuncia che «è mancata una manovra che consentisse di contrastare il calo dei ricavi, riducendo drasticamente i costi di gestione».
I ricavi infatti continuano a calare. La Tv pubblica ha visto il fatturato scendere da 3,1 miliardi del 2008 ai 2,67 miliardi del 2012. Oltre 400 milioni di entrate in meno in soli 5 anni. E dato che dal tanto odiato (e tanto evaso) canone entrano ogni anno in Rai 1,7 miliardi (cioè il 64% delle entrate), la caduta dei ricavi è anche da imputare al crollo della pubblicità.
Scesa, come documenta uno studio R&S Mediobanca, da 1,2 miliardi a 750 milioni (-37%) tra il 2008 e il 2012. Sicuramente la pubblicità è calata per tutti. Ma la Rai ha assistito impotente. Avrà inciso il governo Berlusconi, vien da pensare, che aveva piazzato i suoi uomini al vertice della Tv pubblica. Verrebbe da pensare di sì, dato che per Mediaset il calo della pubblicità tra il 2008 e il 2012 è stato di solo il 18% contro il 37% della Rai. La rete pubblica ha perso il doppio degli spot rispetto al suo diretto concorrente che tra l’altro incamera dalla pubblicità cifre attorno ai 3 miliardi, quattro volte in più della Tv pubblica (che certo ha i vincoli del servizio pubblico).
Il confronto della gestione Rai con gli altri due principali concorrenti, sempre secondo R&S Mediobanca che ha analizzato i conti dal 2008 al 2012 delle tv italiane, è esplicito sotto tutti i profili.
Mediaset ha chiuso in rosso per la prima volta il suo bilancio nel 2012, ma il rendimento sul capitale della Tv di Berlusconi è stato ben sopra il 10% negli ultimi anni. Il 2013 Mediaset ha chiuso con un piccolissimo utile, in linea con i 5 milioni realizzati dalla Rai di Gubitosi. Ma Mediaset tra il 2008 e il 2012, mentre la Rai perdeva 400 milioni, ha cumulato utili per un miliardo. E che dire di Sky? La pay tv ha fatto utili nei 5 anni per la bellezza di 800 milioni, il doppio delle perdite della Rai.
Sky inoltre è riuscita a battere la Rai sulla crescita dei ricavi saliti da 2,6 miliardi del 2008 a 2,8 miliardi nel 2012. Con gli abbonati alla Pay Tv saliti dell’8% negli ultimi 5 anni. Ovvio che Sky con questi numeri abbia un rendimento sul capitale sempre positivo e che nel 2012 è stato del 12%.
La Rai, invece, con le sue perdite è un cattivo investimento per lo Stato. Che ha incassato l’ultimo dividendo nel lontano 2004. Poi più niente. La differenza con le altre emittenti non sta solo nella caduta dei ricavi da parte della Tv di Stato, ma negli eccessivi costi. Sky realizza infatti un fatturato superiore del 5% sulla Rai pur avendo il 65% in meno di dipendenti. Mediaset fattura un miliardo in più della Rai (3,7 miliardi la Tv di Berlusconi contro i 2,7 miliardi della Rai) con la metà dei dipendenti del gigantesco Moloch pubblico.
E così in Rai il costo del lavoro per unità di prodotto (la produttività) ha superato la soglia del 100% nel 2012. Il costo del lavoro per dipendente alla Tv pubblica è di 88mila euro, ben più alto dei 76mila euro del valore aggiunto per dipendente. Vista così è difficile non chiudere in perdita ogni anno che passa. I piccoli utili la Rai li fa solo negli anni dispari, quando non pesano gli eventi sportivi come i mondiali di calcio. Ai 5 milioni di utili del 2013 (dopo il collasso del buco da 245 milioni nel 2012) si contrapporrà il nuovo anno di perdite già pronosticato dai vertici per il 2014, anno dei Mondiali di calcio.
Ma cosa manda in rosso cronicamente la Rai? Non solo il costo del lavoro dei suoi oltre 11mila dipendenti che ogni anno erodono il 40% delle entrate (contro il 10% di Sky e il 25% di Mediaset), ma anche quel canone evaso da un italiano su tre. Dal canone infatti Rai ricava due terzi dei ricavi. Si potrebbe recuperare l’evasione, ma la Rai ha fatto ben poco tanto che la Corte dei Conti ricorda che «il contrasto all’evasione permetterebbe di riequilibrare i conti, ma al momento (2012 ndr) non sono state introdotte misure adeguate». In compenso la pubblicità è crollata (persi oltre 400 milioni di minori ricavi dal 2008 al 2012). L’altra voce che manda a picco i conti sono i diritti televisivi. Ogni anno la Rai deve ammortizzare mezzo miliardo di costi per la produzione e acquisto dei programmi. Uno sproposito come denuncia da anni la Corte dei Conti sull’onerosità eccessiva dei costi delle fiction e dei costi esterni. Se non si spendesse in maniera tanto allegra quel taglio di 150 milioni di minor canone sarebbe sopportabile. Ma in Rai, e non solo, non ne vogliono sapere.
Il Sole 24 Ore – 3 giugno 2014