Ogni anno 36 milioni di persone muoiono di fame senza aver mai avuto nemmeno la possibilità di sfiorare la montagna di grassi e zuccheri che, nel medesimo lasso di tempo, porta alla tomba altri 30 milioni di individui stroncati dall’eccesso di cibo.
Il seminario Ambrosetti a Cernobbio ieri è cominciato così. L’organizzatore del forum, Valerio De Molli, ha accolto i partecipanti con la «lista dei paradossi mondiali». E subito dopo il debito («Paesi considerati fino a pochi anni fa “poveri” oggi finanziano quelli ricchi»), ha collocato il tema degli «sprechi alimentari». Qualcuno, con una punta di malignità, ha osservato che è a sua volta paradossale parlarne in un contesto tutt’altro che francescano. Può darsi, e si potrebbe anche aggiungere (questa volta senza malignità), che il problema non è nuovo. D’accordo. Allora è giusto mescolarlo in una discussione titolata «lo scenario di oggi e di domani per le strategie competitive?». La risposta è sì e ciascuno può mettere in fila le motivazioni etiche o politiche. Ma oltre che giusto è un esercizio necessario se si vuole penetrare nelle profondità della crisi, immergersi negli squilibri più iniqui e più pericolosamente instabili.
Secondo la Fao (Food and agricolture organization) Europa e Stati Uniti sprecano ogni anno 300 chili di cibo a persona. Il 30% della produzione alimentare finisce in pattumiera, «quanto basterebbe per sfamare l’intera popolazione dell’Africa sub-Sahariana», ricorda De Molli.
Il modello occidentale agro-industriale sta correndo verso il limite della sostenibilità economica. Il fatto è che la filiera economica risponde ai bisogni della piramide alimentare, guidata da una sorta di «dittatura» dell’allevamento. Carne di manzo o di maiale, polli, latte, uova: sul pianeta vivono circa 3 miliardi di animali tra bovini, suini, ovini e avicoli. «Un terzo dell’intera produzione alimentare globale è destinata alla loro nutrizione. Il grano e la soia destinati al bestiame, solo negli Stati Uniti, potrebbero sfamare 1,3 miliardi di persone».
Se questo è il quadro, la domanda è semplice: l’Occidente è in grado di smontare la «dittatura della carne», o meglio di rivedere il sistema «animalocentrico» a favore di un’agricoltura più equilibrata? Naturalmente non tocca rispondere agli organizzatori del workshop Ambrosetti, anche se De Molli offre un’ultima traccia interessante: «Ogni mucca riceve dalla Ue un sussidio giornaliero di 2 dollari al giorno, mentre nel mondo ci sono 2,5 miliardi di persone che vivono sotto quella soglia».
E qui siamo al punto. Il «paradosso alimentare» chiama in causa, innanzitutto, le politiche pubbliche di sostegno agli allevatori. In Europa tutto ciò significa rimettere in discussione l’unica vera politica comunitaria gestita da Bruxelles (circa 40 miliardi di euro di sussidi, il 40% del bilancio destinato agli agricoltori). Finora non c’è riuscito nessuno, perché nessuno, nemmeno l’iper-modernista Tony Blair, è mai riuscito a spiegare come si possa gestire una riconversione forzata degli allevamenti in Paesi come Francia, Italia, Olanda e Germania. Ma le cose sono ancora più complicate. Gli stessi agricoltori, gli stessi allevatori sono a loro volta intrappolati in un meccanismo speculativo che fa impazzire i prezzi mondiali delle materie prime, a cominciare da grano, mais e soia. Chi stabilisce il giusto valore delle merci? Non certo chi sale ogni mattina sul trattore. Sono invece i trader, i banchieri, e, chiamiamoli con il loro nome, gli speculatori. Secondo le stime di Barclays, il mercato dei contratti a termine sulle materie agricole vale 500 miliardi di dollari. Dieci volte più dei sussidi comunitari europei. Fino a pochi mesi fa partecipavano tutte le grandi banche multinazionali, in una spirale del tutto simile a quella dei derivati finanziari. Ora alcune banche tedesche, tra le più attive, come Deutsche Bank (contratti per 1 miliardo di euro) Commerzbank, Deka e le Casse di risparmio, annunciano che non investiranno oltre sul trading di derrate alimentari.
Anche qui servono nuove regole e nuovi controlli. Per l’Europa ci proverà la Commissione di Bruxelles, con una proposta attesa per l’inizio del prossimo anno.
gsarcina@corriere.it – 11 settembre 2012