La proposta del ministro Patroni Griffi convince il Pd, perplessa l’Udc, no del Pdl. Rao: è opportuna qualche limitazione ma le garanzie non vanno intaccate. Paniz: va salvaguardato il principio della presunzione d’innocenza. Orlando: pesa la gravità del reato, ben vengano regole più severe
Tutti d’accordo: il processo di moralizzazione della sfera pubblica deve continuare. Codice etico per i dipendenti pubblici e testo unico sulla trasparenza, provvedimenti che il ministro della Pubblica amministrazione Filippo Patroni Griffi – così ha annunciato a Il Mattino – intende presentare in una delle prossime riunioni a Palazzo Chigi, non troveranno ostacoli dai parte dei partiti della «strana maggioranza», che fino a qualche settimana fa ha appoggiato il governo Monti. Ma è nel passaggio dall’astrattezza del principio alla concretezza della norma che Pd, Udc e Pdl si dividono: solo i democratici, infatti, non nutrono perplessità sul fatto che ai dirigenti pubblici, condannati anche non in via definitiva per reati contro Pubblica amministrazione, sia vietato assumere determinati incarichi. E all’articolo 27 della Costituzione – l’imputato non è considerato colpevole fino a sentenza definitiva – che fanno riferimento centristi e Pdl.
«Ci siamo scontrati con le resistenze di parte del Pdl, ma sicuramente noi avremmo preferito maggiore incisività nella legge contro la corruzione. Ne daremo chiara prova con la composizione delle liste elettorali, dove andremo ben al di là di quanto previsto dalle norme sull’incandidabilità», esordisce Roberto Rao, Udc. Ma politico e dipendente pubblico non sono la stessa cosa: «E indubbio che anche in quest’ultimo settore c’è bisogno di moralizzazione, tuttavia farei una differenza con i parlamentari. Nessuno è costretto a candidarsi e se lo fa la sua toga deve essere “candida”, come lo era quella indossata nell’antica Roma da chi si presentava alle elezioni. Per il dipendente pubblico, condannato in via non definitiva, è opportuna qualche limitazione – è anche questione di buon senso – ma non possono essere intaccate le sue garanzie». In conclusione, per i centristi «la filosofia del ministro è pienamente condivisibile», sul metodo forse serve qualche aggiustamento. «Ma se ci saranno linee di indirizzo verso una maggiore moralizzazione non ci sarà alcun problema nel seguirle», conclude Rao. Il pugno di ferro non piace affatto al Pdl. Maurizio Paniz, avvocato e componente della commissione Giustizia della Camera, esordisce con attestati di stima nei confronti del ministro («Sono in piena assonanza con lui») ma pone subito una questione: «Le norme devono concordare con il principio costituzionale della presunzione d’innocenza e della riabilitazione del condannato». Che cosa risponde all’accusa che sia stato proprio il Pdl a impedire regole più severe in tema di anti-corruzione? «La normativa porta il nome di Alfano, basta questo per dire che il partito la condivide. Il Pdl ha chiesto norme serie, comprensibili da parte dei cittadini. Nella prossima legislatura non ci sarà nessun problema ad affrontare questi temi». Francesco Paolo Sisto, anche lui avvocato e componente della commissione giustizia della Camera in quota Pdl, è netto: «Impedire a un dipendente pubblico non condannato in via definita di assumere un incarico può essere solo un fatto discrezionale. Sono contrario all’uso manicheo delle regole, non è che tagliando le mani si impedisce il furto. Il sistema ha un suo equilibrio e non si può correre il rischio di sbilanciarlo. Vanno bene la severità e il rigore ma sempre nel pieno rispetto della Costituzione».
All’annuncio del ministro il Pd risponde con grande soddisfazione. «Noi avevamo proposto che bastasse un rinvio a giudizio per gravi reati contro la Pubblica amministrazione per determinare una sospensione o una interdizione dai pubblici uffici», dice Andrea Orlando, responsabile giustizia del Pd. Una misura eccessiva per il governo che oppose l’articolo 27 della Costituzione, ma «se ora il ministro modifica quell’orientamento per noi va bene». Naturalmente è la gravità del reato a pesare, in quanto – spiega Orlando – in alcuni casi può determinarsi «nocumento» allo Stato qualora l’imputato mantenga le sue funzioni.
8 gennaio 2013