Bruxelles non ha presentato la sua offerta per gli arbitrati tra imprese e governi. Gli Stati Uniti non cedono sulle etichette e non vogliono riconoscere la tutela a Doc e Igp
di Giuliano Balestreri. Gli anti-Ttip esultano. L’undicesimo round di negoziati per l’accordo di libero scambio tra Stati Uniti ed Unione europea – andato in scena dal 19 al 23 ottobre a Miami – si è concluso con un nulla di fatto. E l’intesa si allontana. Di più: il dodicesimo incontro tra le due delegazioni che si sarebbe dovuto tenere in Europa a dicembre probabilmente slitterà a febbraio. Insomma, a meno di improbabili colpi di coda, il Ttip non vedrà la luce prima del 2017, poi dovrà essere approvato dal Consiglio europeo e dell’Europarlamento. Infine, per entrare in vigore avrà bisogno della ratifica di tutti i 28 paesi membri dell’Ue: basterà un “no” a far saltare tutto. “Un’intesa entro l’anno prossimo è fuori discussione” ha più volte ribadito Bernd Lange, relatore sul Ttip della Commissione commercio internazionale dell’Europarlamento: “Parliamo di uno scambio di valori globali ed è per questo che sono disponibile a negoziare. Poi vedremo se l’accordo sarà buono. Se non lo sarà il Parlamento potrà respingerlo”.
Intanto i negoziati procedono al rilento: “L’ultima è stata una settimana di duro lavoro, ma davanti la strada è ancora lunga. Di certo la cooperazione è possibile solo se il livello di protezione per i cittadini non cambia o migliora” dice Ignacio Garcia Bercero, capo di negoziatori europei, di ritorno dal tavolo delle trattative facendo il punto con i parlamentari comunitari. Le parti, però, restano lontane. Eppure la volontà dei tecnici è quella di chiudere sotto l’amministrazione Obama, entro il prossimo autunno. Dal loro punto di vista, uno slittamento sarebbe pericoloso: nel 2017 la Francia torna al voto insieme alla Germania e in Gran Bretagna si terrà il referendum sulla permanenza nell’Unione europea. Nel 2018, poi, toccherà all’Italia. Difficile che i candidati siano disposti a cedere al pressing americano, davanti alle crescenti proteste di piazza. Dall’altra parte dell’Atlantico, invece, la corsa alla Casa Bianca entrerà nel vivo proprio a gennaio: anche in questo caso i candidati alla successione di Obama potrebbero giocare un ruolo fondamentale. Neppure loro avranno intenzione di cedere alla richieste europee.
Insomma, per il momento sono più le “buone intenzioni” dei negoziatori dei fatti concreti. E i temi a dividere sono sempre tanti. “L’unico obiettivo raggiunto è la comune volontà di cancellare i dazi sui beni per il 97% dei prodotti, ma le offerte delle parti sono ancora lontane”, dice l’Europarlamentare del M5s Tiziana Beghin, che aggiunge: “Per alcuni beni alimentare le tariffe doganali resteranno, ma non è stato ancora deciso quali saranno e per gli americani il capitolo agricolo è molto sensibile. E’ una cosa dalla quale non possono prescindere, così come noi non possiamo cedere su carne e coltiviazioni Ogm. Poi non è neppure stato affrontato il tema dell’auto che in termini economici sarebbe il settore a beneficiare maggiormente dell’intesa. Per noi, mai come in questo caso, nessuna nuova è una buona nuova”.
Dopo quasi tre anni di trattative, i punti di frizione tra le parti sono sempre gli stessi: agricoltura e alimentazione; protezione e accesso agli investimenti; trasferimento di dati e accesso alle informazioni. E in questi settori non vengono fatti progressi. Il tema delle etichettature con la protezione dei prodotti Doc e Igp è ferma ai blocchi di partenza perché per gli americani resta un tabù. Gli stessi americani che, invece, vogliono accesso al mercato europeo con il loro carico di Ogm, che pure non sono oggetto di trattativa, ma rappresentano gran parte delle coltivazioni Usa.
A Miami, invece, Bruxelles avrebbe dovuto formalizzare la sua nuova proposta per una corte d’arbitrato che risolva le dispute tra Stato e imprese al posto del contestato sistema dell’Isds, la clausola a tutela degli investimenti delle imprese, ma l’offerta europea è rimasta chiusa nel cassetto. D’altra parte il commissario Ue al Commercio internazionale, Cecilia Malmstroem ha ribadito che “le cose si stanno muovendo ma ci vuole tempo”. Probabilmente la proposta europea non è neppure stata presentata dopo che – informalmente – gli americani avevano fatto sapere che l’offerta non andava nella giusta direzione. L’Isds voluto dagli americani è un meccanismo di protezione degli investimenti perché permette alle imprese di citare in giudizio gli Stati che approvino norme, anche importanti per propri cittadini, potenzialemente nocive per i loro profitti: troppo, almeno per alcuni paesi europei.
Se il tema del flusso di dati non è stato neppure accennato, quello della trasparenza è stato affrontato solo marginalmente. L’Ue si sta impegnando per migliorare l’accesso alle informazioni sullo sviluppo delle trattative coinvolgendo in continuo il Parlamento europeo, ma problemi tecnici e legislativi americani impediscono di trovare una soluzione più facile per accedere alla documentazione. Tra gli altri temi trattati c’è quello degli appalti pubblici: le discussioni sono cominciate a livello federale, ma non statale. Di fatto manca un’offerta formale da parte degli Stati Uniti per liberare l’accesso al mercato che resta chiuso con il ‘buy american’ che rende più difficile lo sbocco. C’è, invece, la garanzia che non verranno toccati i servizi pubblici.
Nel frattempo, secondo i calcoli fatti propri dalla Commissione Ue, dal Ttip, l’economia europea ne trarrebbe un vantaggio calcolabile in un aumento del Pil di quasi 120 miliardi di euro l’anno. Un aumento che andrebbe a regime, però, solo nel 2027, dopo 10 anni di funzionamento del patto. Tradotto: l’economia europea crescerebbe di mezzo punto di Pil nell’arco di dieci anni: dunque, lo 0,05 per cento in più l’anno. Molti, invece, temono che il trattato distrugga posti di lavoro, causando disoccupazione dove i diritti dei lavoratori sono più elevati (in questo caso in Europa). Tra i casi citati ricorre spesso quello del Nafta, l’accordo di libero scambio tra Stati Uniti, Canada e Messico: in 12 anni gli Usa hanno perso un milione di posti di lavoro, anziché crearne migliaia di nuovi.
Repubblica – 1 novembre 2015