di Carlo Petrini. Nel paese della mucca pazza, che solo un anno fa ha deciso di introdurre le etichette a semaforo utilizzando i colori verde, giallo e rosso per semplificare la scelta “sicura” da parte dei consumatori, è scoppiato un altro scandalo alimentare. Un’inchiesta del Guardian rivela che i due terzi dei polli venduti nei supermercati del Regno Unito sarebbero contaminati da campylobacter, un batterio piuttosto comune che, in concentrazioni troppo elevate, può causare disturbi e, in alcuni casi, anche la morte (il quotidiano inglese parla di 280.000 intossicazioni alimentari e presume un centinaio di morti nel Regno Unito solo nell’ultimo anno). Il batterio in questione, infatti, si sviluppa nelle feci e in alcuni organi dei polli (cresta e bargiglio).
A prescindere dalla tecnologia utilizzata negli impianti di allevamento, macellazione e lavorazione, che è sempre perfettibile, ciò che fa specie è che, nel paese che ha visto l’esplosione del morbo della mucca pazza, si torni a parlare di uno scandalo di proporzioni massicce in un ambito come la filiera della carne. Il batterio in questione, infatti, si sviluppa nelle feci e in alcuni organi dei polli (cresta e bargiglio) e la contaminazione avviene a causa della scarsa pulizia degli impianti ovvero di malfunzionamento dei macchinari che dovrebbero separare le carni dalle interiora e dagli scarti della lavorazione.
Si potrebbe ridurre tutto a una questione di tecnica, ma a me pare che il problema però sia un altro.
Ciò che sta alla base di questo che non è il primo e non sarà di certo l’ultimo caso eclatante, è il sistema alimentare nel suo insieme, che chiede sempre maggiori volumi a prezzi sempre più bassi e in tempi sempre più rapidi: un modello globale di cui questo di può ben considerare come un paradigmatico fenomeno. Un pollo «broiler», cioè un esemplare comune da carne deve arrivare al macello intorno ai tre chili in un tempo che varia dai 32 ai 40 giorni. La densità di esemplari per metro quadrato è sempre più alta e, anche al momento della macellazione, non c’è nemmeno il tempo per fermare la linea produttiva (che funziona esattamente come una fabbrica di pezzi per automobili) se occorre ripulire i macchinari in caso di guasti o sversamenti. Per dare l’idea: un impianto industriale arriva a macellare circa 10-12000 polli all’ora.
Se l’impostazione di fondo del mercato agroalimentare è questa, a ben poco varranno giri di vite in materia di legislazione sanitaria e di sicurezza dei prodotti alimentari. Anche se benissimo ha fatto l’Italia ad adottare misure più restrittive di quelle imposte dall’Unione Europea su questo punto (e chi si lamenta dell’eccesso di controlli nel nostro paese, in momenti in cui scandali di questo genere salgono alla ribalta dovrebbe riflettere), il succo è che bisogna cambiare radicalmente l’approccio dei cittadini ai consumi alimentari.
Abbiamo confuso il concetto di low cost con quello di low price. Non è affatto una distinzione stilistica: piuttosto si tratta di una differenza concettuale enorme. Pagare poco o pochissimo un chilo di petto di pollo, non significa che costi poco, ma solo che il suo prezzo è basso. Perché tra i costi da annoverare ci sono quelli ambientali (in termini di materie prime sprecate, degli antibiotici distribuiti in larga misura che entrano nel ciclo dell’acqua, di contaminazioni del suolo da nitrati a causa della densità troppo alta di allevamenti in una zona e di capi di bestiame in ogni allevamento) e quelli sociali: in primis, quelli per la salute. Basti pensare che, sempre rimanendo ai dati dell’inchiesta inglese, i costi sanitari delle intossicazioni da campylobacter (che per l’80% sono attribuibili all’industria avicola) sono di circa 900 milioni di sterline all’anno a fronte di un giro d’affari dell’industria del pollame di 3,3 miliardi di sterline, ovvero quasi il 30% del totale.
Già, ma chi li paga questi costi? Non certo chi fa profitti sull’industria del pollame. Piutto- sto i contribuenti tutti, anche quelli che s’illudono di avere risparmiato sul costo della propria spesa. È questo il punto: ci siamo fatti guidare dall’errata convinzione che prezzo basso equivalesse a costi bassi. Non è così, e ogni giorno facciamo esperienza di questo equivoco.
Questo paradigma va cambiato: solo l’educazione delle persone e la condivisione dell’idea che la salute di tutti noi passa dal cibo che mangiamo, possiamo capire che low price significa che una parte dei costi li paga qualcun altro, semplicemente.
Se non scardiniamo l’equivoco di fondo non usciremo mai da questo modello, che massimizza i profitti dell’agroindustria e scarica le esternalità negative sulla collettività. Se non usciamo in fretta dal mito della rincorsa alla domanda del mercato (che per la natura di questo sistema distributivo concentrato in poche o pochissime mani sarà sempre indirizzata a prezzi più bassi e tempi più rapidi) non ci sarà futuro per il cibo di qualità. Anche perché, e già mi pare assurdo, se qualcuno può essere disposto a sacrificare il sapore o la compatibilità ambientale del proprio cibo, credo che nessuno nel pieno delle proprie facoltà mentali potrebbe sacrificare la propria salute sull’altare della competitività dei prezzi. Ciononostante, l’assenza di un’educazione che consenta di pretendere e comprendere un’informazione corretta, fa sì che proprio questo succeda ogni giorno.
Al contrario, un’agricoltura e un allevamento di piccola scala, sostenibili dal punto di vista ambientale, capaci magari di generare cicli produttivi chiusi con il riutilizzo degli scarti come materie prime seconde, sicuramente chiederanno prezzi più alti del prodotto industriale, ma i costi complessivi saranno certamente più bassi.
La saggezza popolare dopo tutto aveva condensato questi pensieri in un efficacissimo modo di dire: “chi più spende, meno spende”. Sarebbe il caso di tornare a utilizzarlo.
Repubblica – 11 agosto 2014