Un collega fa un errore? Va avvisato. Chi se ne accorge deve segnalarglielo per metterlo nella condizione di rimediare
Se non lo fa merita la censura, come accaduto al ricorrente della causa decisa dalla Corte di cassazione, con la sentenza 1943, depositata ieri. La Suprema corte, nell’avallare la scelta della Commissione amministrativa di disciplina, mette l’accento sul dovere di correttezza, di collaborazione e di solidarietà nei rapporti tra colleghi.
Obblighi deontologici che il professionista censurato non aveva rispettato, decidendo di non mettere un collega nella condizione di correggere la rotta rispetto all’atto di provenienza di un immobile di cui il ricorrente doveva attestare la vendita. Nel documento mancava l’indicazione di alcuni provvedimenti edilizi in forza dei quali lo stabile era stato costruito e modificato. Il ricorrente, inoltre, non si era limitato solo a non indicare al collega la “svista”, ma l’aveva segnalata in modo verbale alla venditrice e per iscritto all’istituto di credito. Circostanza questa che aveva portato i probi viri e i giudici a escludere il presupposto della non occasionalità della violazione delle norme deontologiche. Il notaio poco “collaborativo” aveva scritto alla banca confermando di aver verificato che nelle carte di provenienza non erano stati rispettati tutti gli adempimenti previsti dalla legge 47/1985. La venditrice invece era stata invitata ad andare in Comune per effettuare le verifiche urbanistiche ed edilizie. Aveva dunque dato rilevanza esterna all’errore, senza preoccuparsi di contattare il collega «pur avendone il dovere deontologico e l’occasione».
Un atteggiamento considerato la spia della volontà di mettere in cattiva luce l’altro professionista. Per non incorrere nella “punizione” il notaio avrebbe dovuto informare il collega con la dovuta riservatezza, senza esprimere di fronte al cliente «in qualsiesi forma valutazioni critiche» sul suo operato.
Inutilmente l’incolpato ha cercato di confondere le acque sul destinatario di una sua frase con la quale dichiarava: «è un escamotage che, nel migliore dei casi, mi sembra peccare di faciloneria». Per lui si trattava di un dissenso nei confronti di una tesi giuridica sostenuta dal venditore. Per i giudici era una critica al lavoro del collega.
Il Sole 24 Ore – 30 gennaio 2014