di Sonia Lavagnoli
Un altro anno sta per terminare e, come sempre, è tempo di riflessioni su quanto è avvenuto e magari di buoni propositi per il successivo che verrà. Dal punto di vista femminile, l’Italia non è un paese dove è facile essere donne. Non sta a me fare indagini sociologiche o individuare responsabilità politiche, ma è innegabile che nel nostro paese l’immagine femminile che più viene pubblicizzata dentro e fuori dalla tv, è quella delle veline. Questo provoca, inevitabilmente, un problema nell’evoluzione del ruolo delle donne nella società italiana che è sotto gli occhi di tutti.
Mentre negli altri stati europei la parità di genere viene incoraggiata perché considerata un fattore di crescita nazionale, il nostro paese si muove in direzione opposta. Eppure, da uno studio dello World Economic Forum pubblicato ad ottobre, si deduce che, colmando il divario di genere, il Pil dei paesi dell’eurozona aumenterebbe del 13 per cento. Ma l’Italia è decisamente indietro: all’87° posto per quanto riguarda l’occupazione femminile, al 121° per la parità salariale, al 97° per la possibilità delle donne di ricoprire incarichi di vertice.
Nel complesso l’Italia è al 74° posto nella classifica mondiale, dopo Colombia, Perù e Vietnam. Il problema non è che solo il 45 per cento delle donne italiane ha un’occupazione retribuita (contro l’80 per cento delle norvegesi e il 72 per cento delle britanniche), che le lavoratrici italiane guadagnano il 20 per cento in meno degli uomini e occupano solo il 7 per cento dei ruoli dirigenziali, ma sta anche nel fatto che le madri che lavorano sono anche considerate negligenti. Permane ancora la mentalità che gli asili nido siano deleteri, che la cosa migliore per i bambini piccoli sia stare con la mamma, e questo rischia di portare ad una situazione in cui l’unica a occuparsi dei figli è la madre, su cui spesso ricade interamente il compito della loro crescita.
Il paradosso, nonostante questa idealizzazione della figura materna, è che l’Italia è anche il paese europeo con il più basso tasso di natalità (solo l’1,3%), dove la donna che lavora ha difficoltà a gestire il suo lavoro se ha più di un figlio.
Siamo quindi un paese “vecchio”, che spende il 15 per cento del Pil per le pensioni, di cui gode il 22 per cento della popolazione, una percentuale elevatissima che non ha paragoni. Eppure, secondo il rapporto del Word Economic Forum, rendere la vita più facile alle donne che lavorano e aumentare il numero di donne con impiego retribuito potrebbe far crescere enormemente il Pil italiano.
Se paragonata alla situazione delle donne del nostro paese, la nostra, quali dirigenti veterinarie pubbliche, è sicuramente più favorevole, almeno per quanto attiene all’ambito prettamente professionale. E’ innegabile che siamo numericamente poche, come è vero che poche di noi, soprattutto in ambito Asl, rivestono ruoli di dirigenza apicale o di alta professionalità, ma siamo anche, come età media, più giovani, con una anzianità di servizio inferiore rispetto ai nostri colleghi uomini.
Quello che è certo è che il nostro ruolo, quale che sia, ce lo siamo guadagnato, e ce lo guadagniamo ogni giorno sul campo. Trovo, mi sia permesso dirlo, senza modestia ma, credo, con obiettività, che noi donne veterinarie siamo preparate, competenti, efficienti. Ognuna di noi, al di là delle inevitabili differenze caratteriali, mi sembra degna di stima e considerazione.
Ci attende, citando un vecchio slogan, una “lotta dura senza paura”, ma di veline tra noi non ce ne sono. E, perlomeno in questo, quello appena trascorso, è stato un buon anno. Auguri a tutte.